“Iris” di Serena Pontoriero

La segretaria lo accolse con grande amabilità e lo accompagnò lungo il corridoio indicandogli la porta della dottoressa. Appena lui varcò la soglia dello studio di lei, istintivamente, desiderò tornare indietro e andar via, ma era troppo tardi. La dottoressa, che era seduta di spalle, si voltò e lo vide.

I due si guardarono in silenzio durante un secondo che parve durare un’eternità. Durante questo lungo secondo, lui notò la giovane età della dottoressa. Il suo sorriso composto sembrava sincero, infatti era leggermente grinzoso sugli angoli esterni degli occhi. Esse erano le sole leggere pieghe presenti sul volto di lei. La fronte larga e liscia, gli zigomi alti ed un collo lungo e vellutato non lasciavano dubbi: aveva trentatré anni meno di lui. I capelli lunghi e castani le incorniciavano il volto sereno. Le labbra, arcuate e rosa, seguivano la linea tracciata dagli occhi.

Nonostante il volto sembrasse accogliente, l’uomo ebbe l’impressione che quel lungo secondo fosse stato spezzato da un’ombra che per un istante coprì il suo sguardo color cielo. Aveva forse capito?

Non ebbe il tempo di soffermarsi sulla domanda poiché un leggero movimento di lei ravvivò il profumo che aleggiava nella stanza. La giovane donna emanava una fragranza dolce e delicata. Gli parve riconoscere le note dell’iris, il fiore che più aveva segnato le sue vacanze, quando era ancora bambino. Sua nonna ne andava matta ed era solita adornare il terrazzo della casa all’Argentario dei loro petali gialli, neri e cremisi.

La stanza, bianca, era carica del suo profumo e del suo sguardo. Non riuscendo più a sostenerlo, cercò una via di fuga, una presa d’aria. Sperò che il pronunciare una parola lo togliesse dall’imbarazzo. Disse “salve”, ci provò. Al posto di una parola di due sillabe, emise un suono che non era certo quello di una parola articolata. Sembrava più un rumore misto a un fischio. Invece di trovare una scappatoia, si sentì ancor più preso in gabbia dallo sguardo di lei.

La dottoressa, gli indicò la sedia davanti alla sua scrivania e lo fece accomodare. Davanti a lei era seduto un uomo che non aveva mai incontrato prima che, tuttavia, aveva qualcosa di famigliare. Doveva avere una trentina d’anni più di lei: i dorsi delle mani, seppur molto curati, erano striati e un po’ bitorzoluti. Una fede dorata cingeva l’anulare della mano sinistra. La notò quando lui avvicinò la mano al volto per togliere la sciarpa che posò sulla sedia vuota accanto. Non tolse il cappotto, segno che non era a suo agio, ma lei indovinò che doveva essere un uomo forte, con le spalle larghe e qualche chilo di troppo. Strinse le mani fra le ginocchia, sfregandole leggermente.

Un lampo gli passò sul viso, aveva scordato di togliersi il cappello. Alzò un braccio e sfilò il copricapo. Per un attimo il suo viso fu completamente coperto dall’ombra che il braccio e il cappello proiettavano su di esso. Poi abbassò il braccio e la luce illuminò appieno il suo volto.

La dottoressa non ebbe più nessun dubbio:

“Ciao, papà”.

Lui rimase immobile, in una posizione innaturale. Una mano rimasta fra le ginocchia che ormai non si muovevano più, il petto gonfio d’aria, gli occhi fissamente spalancati, il braccio che teneva il cappello fermo a mezz’aria.

Un leggero rossore era l’unico segno di vita in quel corpo ingessato. Poi, i muscoli della mascella si contrassero e, senza muovere un sol altro muscolo disse:

“Ciao, Iris”.

Era un freddo pomeriggio d’inverno. Il buio era interrotto a tratti dalla calda luce dei lampioni che marcavano il limite del marciapiede. I fari delle auto, proiettavano ombre ora corte, ora lunghe, sulla strada umida.

Quel momento se lo erano immaginati entrambi, per più di trent’anni, tutti i giorni. Si erano incontrati in una stazione affollata, in un parco, alla fila di un supermercato, all’uscita dal cinema e anche quando erano in viaggio. Al secondo chilometro del Ponte di Brooklyn, in alto sul London Eye, al botteghino della Tour Eiffel, al ristorante di sushi a Kyoto. Ed ora erano lì, faccia a faccia. Infine congiunti, dopo anni di separazione, pur senza essersi mai persi.  

Il suo saluto, sentir pronunciare il suo nome per la prima volta, le diede i brividi. Avrebbe voluto che quella misera frase durasse in eterno, che lui parlasse ancora, voleva ancora ascoltarlo e osservarlo. La frenesia del tempo perduto si impadronì della giovane donna che sentì le viscere attorcigliarsi, il pizzicore delle lacrime bruciarle gli occhi, le mani inumidirsi nonostante il freddo. Avrebbe voluto alzarsi dalla poltrona per… Si aggrappò ai braccioli, fece un profondo respiro e inclinò leggermente la testa all’indietro. Più calma, guardò dalla finestra e accennò un sorriso.