Lee Miller: da modella a fotoreporter di guerra
Voce all’Arte
a cura di Paola Treu
Lee Miller era bella, elegante, intraprendente, ma soprattutto libera.
Chi era Lee Miller?
Modella, musa di grandi artisti e fotoreporter di guerra. Questo e molto altro è stata Elizabeth “Lee” Miller.
Nasce nel 1907 a Poughkeepsie, una cittadina nello Stato di New York, in una famiglia borghese. Fin dalla tenera età di sei anni il padre, Theodore Miller, è uno stimato ingegnere, la coinvolge nella sua passione per la fotografia, non solo come modella ma l’avvia anche ai segreti della ripresa e della camera oscura.
L’infanzia, però, finirà presto, a causa di una violenza sessuale che la segnerà per sempre e la porterà a chiudersi in un carattere duro e irrequieto.
Negli Anni ’20, grazie a un incontro fortuito, Lee Miller diventa una delle modelle più celebri di “Vogue” e un’icona della moda, posando per i più celebri fotografi del lusso del glamour. Bellissima e corteggiata, rappresenta sulle pagine patinate l’essenza delle
Flappers dei romanzi di Francis Scott Fitzgerald.
La carriera da it-girl procede brillantemente fino a quando non presta il suo volto per la campagna pubblicitaria di un marchio di assorbenti, che in quell’epoca erano un argomento di assoluto tabù per l’America bigotta.
Lee non ne fa una dramma, anzi già da tempo aveva espresso il desiderio di non essere più il soggetto delle fotografie e di passare dall’altra parte dell’obiettivo.
“Preferisco fare una foto che essere una foto”:
da questo momento, sarà il motto che l’accompagnerà per il resto della vita.
Frequenta qualche lezione presso una scuola fotografica e poi decide di partire alla volta di Parigi, in quel periodo al centro del mondo, fucina
creativa delle Avanguardie artistiche. Bussa alla porta di Man Ray, altro emigrante newyorchese ma soprattutto il padre della fotografia surrealista, e si offre come apprendista.
In poco tempo tra i due sboccia una profonda storia d’amore, Ray la elegge a propria musa e la immortala in molti scatti famosi, conservati in molti musei di tutto il mondo.
Forte è anche il loro sodalizio professionale
“Mentre lavoravamo, lui e io eravamo una persona sola.”; Lee impara rapidamente e mette a punto la tecnica della solarizzazione: un alone di luce circonda le figure e le smaterializza, redendole simili alle forme dell’inconscio che i surrealisti rincorrono.
Realizza celeberrime foto, come il ritratto della artista surrealista Meret Oppenheim, una delle tante amicizie speciali della coppia insieme a personaggi del livello di Picasso e Breton.
In poco tempo, Lee Miller diventa una fotografa completa e indipendente, con uno stile maturo e raffinato. È ormai pronta per aprire uno studio tutto suo e lo fa, nel 1932, al numero 8 della East 48th Street di New York.
Nonostante la grave crisi del 1929 ha un enorme successo e lavora per importanti clienti come Helena Rubinstein e le due maggiori stiliste del tempo, acerrime rivali peraltro: Coco Chanel ed Elsa Schiaparelli.
Ritrae numerose celebrities, scolpite dalle ombre del chiaroscuro, volti enigmatici, nessun accenno di sorriso.
Stanca della fotografia pubblicitaria e per le riviste di moda, è alla ricerca di nuovi stimoli. Conosce il facoltoso Aziz Eloui Bey e, appena sposati, va con lui in Egitto, lasciando i panni di fotografa per indossare quelli di una signora dell’alta società.
Ma, è un abbandono che non dura molto. Infatti, le giornate dall’apparente pace, con la compagnia di donne tutto “raso nero e fili di perle”, l’annoiano mortalmente.
Cercando l’evasione, va alla scoperta del fascino del deserto e riprende in mano la macchina fotografica, per non lasciarla mai più. Le foto che scatta in questo periodo, di monasteri copti, rovine antiche, ombre di piramidi viste dall’alto e spazi immensi, dal sapore squisitamente surrealista, sono tra le più belle di tutta la sua carriera, poetiche e piene di mistero.
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Ancora una volta, però l’irrequietezza si fa sentire e Lee fugge da questa routine che ormai la soffoca.
Ciò di cui ha bisogno è indipendenza, movimento, avventura. Il figlio, anni dopo, ricorderà come “per lei viaggiare è sempre stato più che arrivare”.
Ritorna a Parigi, dove ritrova la comunità dei suoi amici surrealisti. In questa occasione, Picasso la ritrae in ben sei dipinti, in cui tutte le sue vite felicemente si ricompongono.
Conosce il curatore d’arte Roland Penrose, che diventerà il suo secondo marito e insieme avranno un figlio. Con lui viaggia nel sud e nell’est Europa e si approccia alla fotografia di reportage. Nel 1939 divorzia da Bey e va a vivere a Londra con Roland.
Nella capitale inglese collabora con “Vogue” come fotografa di moda, ma non è serena, questo lavoro non le basta, la guerra ha già cominciato a provocare i primi tragici effetti e sente di dover fare di più.
Fotografa di reportage di guerra
La Miller allora accompagna le fotografie di moda ai reportage, regalando immagini alienanti e ricche di significato. Come quella delle due modelle che indossano delle ingombranti maschere di protezione in Fire Masks oppure quelle dei bombardamenti su Londra.
Tutto quello che coglie il suo obiettivo è drammaticamente più vero del vero, un mondo che va in frantumi. Nel ’44 scrive ai genitori che
“mi sembra piuttosto stupido continuare a lavorare per una rivista frivola come Vogue, che può essere buona per il morale del Paese, ma un inferno per il mio.”
Così, grazie all’amico e collega David E. Scherman, fotoreporter di “Life” e “Time”, ottiene un accredito stampa e diventa corrispondente di guerra al seguito delle truppe americane.
Unica donna, con Margaret Bourke-White (anche se non lavoreranno mai assieme), a cui è concesso di seguire i soldati in prima linea. Ennesima metamorfosi, dunque, per Lee Miller, che smette i panni di femme fatale per indossare la divisa di ordinanza dell’esercito e con la sua Rolleiflex affronta quella che sarà una vera discesa agli inferi.
Insieme a Scherman è l’unica donna a documentare le attività al fronte durante il D-Day, immortalando l’avanzata militare degli Alleati in numerose battaglie, in particolaremquella di Saint Malo.
È con loro quando liberano Parigi; li accompagna poi a Vienna, Budapest e Berlino, devastate dagli attacchi aerei. Fotografa senza indugi gli ospedali da campo, le SS morte nei canali, finanche i bambini morenti.
Gli occhi di Lee vedono quello che gli altri non vedono, i suoi scatti colgono il volto spettrale del conflitto e sono documenti che conservano tuttora il pathos e l’emozione del momento in cui sono stati realizzati.
Arriva ai campi di sterminio, ultima fermata del suo viaggio attraverso l’inferno. È tra le prime dames fotografe a registrare l’orrore e le atrocità dei lager.
Le sue istantanee di Dachau e Buchenwald sono preziose testimonianze contro ogni pretesta negazionista.
Le invia a “Vogue” accompagnate da un biglietto di suo pugno “Believe it!” (Credeteci!) e rappresentano un corto circuito incredibile, uno sprazzo di realtà, peraltro così cruda, nel mondo lussuoso del periodico.
E ancora:
“in confronto, il fronte sembra un miraggio di pulizia e umanità.”
La foto più celebre di Lee Miller
Ed eccola a Monaco, nell’appartamento di Hitler. Qui Scherman la ritrae in una delle foto più iconiche della storia, di forte carica simbolica e con la quale entrerà a pieno titolo tra le donne leggendarie del Novecento.
Vediamo la Miller nella vasca del Führer, nuda mentre si fa il bagno; a sinistra, appoggiato sul bordo, c’è un ritratto di Hitler, a indicazione del luogo in cui si trova; a destra, appoggiata su un mobiletto, la statuetta di una Venere; ma sono soprattutto gli anfibi lasciati sul tappeto bianco
candido e la divisa su uno sgabello a colpire: sono sporchi del fango, della polvere, della tragedia dei campi.
In questo c’è tutto il guizzo surrealista, che è la sua cultura, a volere così manifestare un atto di ribellione e di rivincita sul male, una sorta di
regolamento di conti. È un’immagine che travalica il tempo e le ideologie.
“Ho viaggiato attraverso la Germania chiusa in una corazza d’odio e disgusto.”
Al termine della guerra, nel 1946, fa ritorno in Inghilterra, dove è considerata un’eroina, ma i fantasmi di quello che ha vissuto la tormentano, i disturbi post- traumatici e le crisi depressive si fanno sempre più intensi. Continua ancora qualche anno a fotografare per “Vogue”: ritratti, arte e moda.
Col marito pubblica monografie su Picasso, Mirò, Tapies e Man Ray. Nel 1955 è chiamata da Steichen per la mostra
collettiva The Family of Man.
La depressione ha però il sopravvento e Lee si ritira definitivamente dalla scena pubblica. Butta in soffitto, con l’intento di nascondere il suo passato, foto, articoli e ricordi delle sue vite precedenti.
Nessuno avrebbe mai saputo chi era stata Lee Miller, se per puro caso il figlio Anthony non avesse scoperto dopo la morte della madre quel tesoro sommerso, decidendo di riportare alla luce il talento di una fotografa di straordinaria bravura, capace di far sentire la sua voce per mezzo dell’arte.
Muore nel 1977 a Farley Farm House, nel Sussex, circondata dai suoi amici di sempre Picasso, Max Ernst e Man Ray, non senza aver donato un ultimo sorriso all’obiettivo della macchina fotografica, compagna fedele della sua intera esistenza.