Pallidi segni di quiete di Adania Shibli

Voce al Mare

Recensione di Elvira Rossi

Pallidi segni di quiete di Adania Shibli, editore Argo, è una silloge di racconti che svelano il sogno represso di una normalità negata.

L’autrice, che si muove in uno spazio dove le azioni ordinarie della quotidianità si trasformano in imprese eccezionali, trae ispirazione dal proprio vissuto.

Di cosa tratta Pallidi segni di quiete?

Nei territori occupati della Palestina, il concetto di normalità è stato smarrito e stravolto dalla violenza di un perenne conflitto.

Adania Shibli che non commenta, non giudica, non inveisce, non si lamenta, si pone come interprete discreta di una realtà che parla attraverso l’evidenza delle rappresentazioni.

Il distacco vive in lei e con lei.

La narrazione svincolata dalla denuncia finisce con l’essere ancora più potente e incisiva che se fosse animata da un intento accusatorio dichiarato.

La mestizia si insinua ovunque, accomuna le persone e avvolge il paesaggio.

La sofferenza vive nella indolenza di gesti privi di speranza, nella assuefazione alla conta dei morti, nelle mutilazioni di un Paese oltraggiato.

Il profumo dolce degli agrumi è stato soffocato dall’odore penetrante delle macerie, che raccontano storie di mortali incursioni.

La terra, prima protetta da una amena vegetazione di piante mediterranee, appare ora prevalentemente coperta da uno strato spesso di polvere.

“La polvere”, che diventa titolo di un racconto, è una vera e propria ossessione.

Toglie il respiro, penetra a fondo negli abiti. Si erige a simbolo di desolazione e distruzione:

“La polvere. Ecco che la tragedia avvolge tutti, anche quelli che camminano nel modo più naturale possibile. I capelli, il volto, le mani, i vestiti: sono completamente coperta di polvere e di disperazione.”

I piedi affondano nella polvere lungo i tragitti che, se pur brevi, impongono una fatica snervante per la costante presenza di check-point da attraversare.

Le attese ai posti di blocco sono lunghe e imprevedibili.

In quei momenti il destino appartiene totalmente a soldati armati, annoiati, indifferenti, arrabbiati.

“Aspettare è diventato uno stile di vita”, afferma Adania Shibli.

Alla narratrice appartiene un orologio che fuori dalla Palestina segna le ore con regolarità, mentre nel territorio palestinese rallenta, si ferma come se si rifiutasse di misurare il tempo rubato alla vita.

Una vita sprecata in attese, controlli, perquisizioni.

Le barriere da superare sono numerose, ma le più ardue da dominare sono quelle che alimentano sentimenti di reciproca ostilità.

In un vortice incessante di violenza, una soluzione appare improbabile:

“ La realtà è che se qui si sparge odore di sangue, è sicuro che si spargerà anche di là. Qui, in questa notte ho capito che l’occupazione non ci occupa solo fisicamente, ma ci ha occupato anche l’anima e vi ha istillato la facilità di uccidere.”

La Palestina è una terra che ruba il sorriso, divide gli esseri umani, addestra tristemente l’infanzia alla violenza:

“I bambini,col sorriso sulle labbra, gettavano pietre ai soldati. Mentre i soldati erano lì, oltre il check – point, nascosti dietro gli alberi, i sacchi di sabbia e di cemento e i loro giubbotti antiproiettile.”

La parola libertà risiede nell’immaginario e appare  lontana e irraggiungibile come le nuvole:

“Ma le nuvole continuano a muoversi, una dietro l’altra, senza fine, e senza calore. Non importa quanto questo sentimento sembri innocente, ma arriva sempre il giorno in cui invidiamo il movimento leggero delle nuvole in cielo, e la libertà degli uccelli nello spostarsi da un luogo all’altro.”

Impressiona apprendere che nella scuola elementare dei territori occupati si leggono testi letterari di diversi paesi arabi, tranne quelli della Palestina.

I programmi di studi controllati da Israele non lo consentono.

Nella propria terra si consuma “una vita di second’ordine”:

“ Camminavo con un dolore nel cuore e nel petto. Il mio corpo procedeva sempre in allerta, in attesa, forse, di una pallottola che sarebbe arrivata all’improvviso per coglierci di sorpresa, noi, me, il silenzio.”

Di fronte alla catastrofe di una occupazione interminabile l’unica scelta possibile è la resistenza.

Adania Shibli lo afferma esplicitamente in “Sangue freddo”.

Per sopravvivere, non può esserci accoglienza né per la gioia né per il dolore.

Talvolta accade che uno dei due sentimenti eserciti una certa pressione e rivendichi il proprio diritto all’esistenza.

È impossibile restare saldi nella impassibilità, quando si apprende che un quattordicenne, mossosi  da Gaza in direzione Gerusalemme per andare a cercare lavoro, è stato ucciso dai cecchini israeliani.

Ma al dolore che si affaccia è consentito solo attraversare rapidamente l’animo senza dimorarvi.

La narratrice quando si reca a Jenin, alla quale si legano tanti ricordi dell’infanzia, prova un senso di felicità e per un istante desidera liberarsi da quel dolore che rischia di monopolizzare la sua esistenza.

L’amata Jenin come le apparirà?

“E se quegli alberi non ci fossero più? In questi sette lunghi anni migliaia di vite sono state spezzate, migliaia di case sono state distrutte, migliaia di acri di terra confiscati e migliaia di alberi sradicati. Un leggero dolore torna e dissolve la pressione al petto allontanandomi un po’ dalla felicità. Pian piano avanza una sensazione di indifferenza, che allontana il dolore e la felicità insieme.”

I cambiamenti, che si sono prodotti in questa regione, non sono una conseguenza dello scorrere naturale del tempo, ma sono l’effetto di conflitti e scelte politiche scellerate che decidono della sorte delle genti.

Perché leggere Pallidi segni di quiete?

Nei racconti di Adania Shibli, come del resto in tutta la narrativa contemporanea palestinese,  gli elementi biografici si associano alla storia di una comunità che lotta a difesa della propria identità.

Nel “ La cenere nei suoi occhi” compare nonna Nofa, che non ama nessuno e respinge anche i nipoti, e che a sua volta non è riamata da alcuno, tanto che la sua morte lascia tutti indifferenti.

Il volto gelido di questa donna appare nella sua struggente umanità solo alla fine della vicenda, quando si scopre che ad allontanarla dal calore della vita e degli affetti era stata una perdita, per lei insostenibile, avvenuta nel 1948.

Nei racconti di Adania Shibli  sono ricorrenti le descrizioni di una natura profanata nella sua bellezza e che  chiede di continuare a esistere attraverso la trasmissione della memoria.

Le ruspe, che hanno spianato alberi e villaggi, non hanno il potere di distruggere i ricordi che con ostinazione trattengono  gli umori di un passato,  che la spietatezza dell’occupazione militare vorrebbe cancellare dalla Storia.

“Noi cresciamo con il senso dell’assenza dei villaggi che non ci sono più ma che un tempo esistevano, e che cerchiamo di rimpiazzare con l’immaginazione. Siamo sempre alla ricerca di una normalità che è andata perduta. I palestinesi sono come dei detective alla ricerca delle tracce di vita scomparsa. Il visibile e l’invisibile sono sempre lì.”

Se è stato possibile demolire i villaggi, sarà difficile cancellare l’identità di un Popolo, le cui donne lottano in prima linea per la sua conservazione.

Le donne palestinesi, scrittrici e non, sono le custodi tenaci della propria storia e guerriere disarmate affrontano le armi nemiche in una sfida costante.

I toni pacati e il senso di straniamento, che caratterizzano l’intera produzione letteraria dell’autrice, vanno oltre  la tecnica letteraria,  assumono un valore etico e rientrano nella strategia della sopravvivenza.

Le emozioni, trattenute a fatica, sprigionano la propria energia in descrizioni minuziose, che tentano di distogliere l’attenzione dalla insostenibile visione dell’essere disumano.

Le scelte stilistiche non si basano mai su canoni puramente estetici.

Si percepisce con chiarezza che l’analisi descrittiva, sempre dettagliata e pregnante, occulta e trattiene l’intensità di un dolore, che ammantandosi di pudore si rifiuta di apparire nella sua nudità.

Quando l’ansia rischia di esplodere, il pensiero ansima spezzandosi in frasi brevi o ellittiche, come ad esprimere la difficoltà di comprendere l’assurda complessità di un assedio senza fine.

Miniature dai caratteri particolareggiati e poetici tratteggiano atmosfere singolari ai confini della realtà.

Il linguaggio asciutto ed essenziale, pur restando ancorato alla concretezza delle immagini ,ha l’effetto di trasmetterci sensazioni di smarrimento e inquietudine.

Pallidi segni di quiete di Adania Shibli senza rumore, in maniera sommessa, apre le menti alla conoscenza  di un dramma e scuote le coscienze sopite dall’indifferenza.

Link d’acquisto

https://www.ibs.it/pallidi-segni-di-quiete-libro-adania-shibli/e/9788882341909

Sinossi

Pallidi segni di quiete raccoglie i più bei racconti di Adania Shibli, la giovane scrittrice palestinese il cui primo romanzo, Sensi (Argo 2007), è già noto al pubblico italiano.

Calando l’asciutta enunciazione di minuti fatti quotidiani in un’atmosfera oscillante tra stupore e sgomento, Adania Shibli consegna al lettore un mondo drammaticamente incomprensibile.

Da “Senza rami” a “Necrologio di un bravo professore del quartiere armeno” a “Pallidi segni di quiete”, che dà il titolo alla raccolta, è un incessante succedersi di finestre che si spalancano su un universo bello e terribile, fissato da occhi inermi e spietati.

Titolo:  Pallidi segni di quiete
Autore:  Adania Shibli
Edizione: Argo, 2014