La vita degli animali di Audur Ava Olafsdottir
Voce alle Donne
Recensione di Emma Fenu
La vita degli animali è un romanzo di Audur Ava Olafsdottir edito da Einaudi nel 2020.
Di cosa tratta La vita degli animali?
La vita degli animali non è un romanzo facile.
Lento, a tratti straniante, fatto di sovrapposizioni, in un mix di narrativa, saggio scientifico e filosofico, il testo mette alla prova il lettore.
Cominciamo dalla storia.
Dopo aver abbandonato gli studi di teologia, Dýja, islandese, intraprende la professione di ostetrica come altre ave delle precedenti generazioni della sua famiglia, un uomo incluso. La sorella è metereologa e i genitori hanno un’agenzia di pompe funebri.
Dopo un’alluvione, prima di Natale, una terribile tempesta sta per abbattersi sulla città, ma in quell’occasione di festa, la protagonista è di turno, quindi non prenderà parte alla riunione di famiglia.
Nel frattempo, abita nella stessa casa della zia omonima, morta di recente, anche lei ostetrica che ha lasciato un segno indelibile con le sue battute e i suoi comportamenti sia in ambito familiare che professionale.
Per non interrompere il legame con la zia, Dýja non vuole ristrutturare troppo la casa, lasciandovi i segni del tempo e del ricordo, finchè troverà in un baule alcuni scritti della zia, fra i quali uno è intitolato La vita degli animali, in cui l’autrice si interroga sull’uomo, sulla luce, sulla comparazione fra i vari mammiferi, uomo incluso, e sulla sempre più minacciata armonia con la natura.
Mi fermo un attimo.
Una storia banale? No.
Rileggiamo la mia prima frase che introduce la trama.
“Dopo aver abbandonato gli studi di teologia, Dýja, islandese, intraprende la professione di ostetrica come altre ave delle precedenti quattro generazioni della sua famiglia, un uomo incluso. La sorella è metereologa e la famiglia ha un’agenzia di pompe funebri.”
Forse avrei potuto fermarmi qui.
Una ragazza inizia a studiare teologia, ossia a interrogarsi sulla creazione, sulla vita, sulla morte, sulla verità.
Esiste Dio? E, se esiste, chi è l’uomo? Come definire la vita e il suo opposto?
“Dio disse: «Sia luce!» E luce fu. Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce «giorno» e le tenebre «notte». Fu sera, poi fu mattina: primo giorno.” Genesi, 3-5
La ragazza in questione, inoltre, è islandese, quindi la sua percezione è determinante: nella sua terra ci sono mesi di buio, di luce e la meraviglia dell’aurora boreale. Luce e buio sono cardini dell’esistenza, segnano il tempo non solo atmosferico, ma anche dell’anima.
E anche il paese delle balene, le cui frequenze sono ritenute rilassanti per le partorienti e che, esse stesse, dopo il parto, hanno bisogno di un aiuto per far respirare una prima volta il cucciolo spingendolo verso l’alto: hanno bisogno di un’ostetrica.
“Poi Dio disse: «Vi siano delle luci nella distesa dei cieli per separare il giorno dalla notte; siano dei segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni; facciano luce nella distesa dei cieli per illuminare la terra». E così fu.
Dio fece le due grandi luci: la luce maggiore per presiedere al giorno e la luce minore per presiedere alla notte; e fece pure le stelle. Dio le mise nella distesa dei cieli per illuminare la terra, per presiedere al giorno e alla notte e separare la luce dalle tenebre. Dio vide che questo era buono. Fu sera, poi fu mattina: quarto giorno.” Genesi, 14 – 19
Ho riportato frasi del primo libro della Bibbia non perchè se ne faccia riferimento nel romanzo, quantomeno esplicito.
I miti cosmogonici sono comuni a tutte le culture e ho scelto, mia sponte, quello che mi è più familiare. Ma di luce e buio si parla, nel testo e in tale recensione, in termini universali, non legati a specifiche confessioni religiose o riflessioni filosofiche.
Tuttavia, nella nostra storia, la teologia non è la strada per Dýja che sceglierà invece un antico mestiere di famiglia, l’ostetrica, parola che nel 2013 gli islandesi hanno eletto come la più bella del loro idioma: ljósmóður significa, infatti, letteralmente, Madre della luce.
Non è forse dalle mani dell’osterica che l’essere umano, concepito e cresciuto nel buio come una patata, viene alla luce della vita? Il seme non deve forse morire per dare frutto?
E, se aggiungiamo che la sorella è metereologa, quindi voce narrante del disastro globale, e che i genitori si occupano delle esequie, comprendiamo che in questo romanzo si parla di parto, nascita o morte del neonato, allattamento, depressione, maternità, evoluzione dei cuccioli dei mammiferi… ma non solo.
Perché leggere La vita degli animali?
“Per poter morire, devi prima nascere.” La vita degli animali
Una riflessione scontata? No.
La zia ostetrica, mentre confeziona completini in maglia per ogni bimbo, sussurra loro predizioni sulla verità della vita, offre una fetta di torta alla puerpera e si domanda come può quell’esserino nudo senza nemmeno piume, il più debole e indifeso fra i cuccioli, compiere, da adulto, atrocità, spadroneggiando sulla Terra di cui è ospite, cagionando guerre e estinzioni, o generare bellezza e bontà, si pone domande ancestrali.
Si dice che il trauma più grande non sia la morte, ma la nascita, perché bisogna abituarsi alla luce.
E, una volta che la luce diventa familiare, arriva di nuovo il buio.
Ma, anche all’interno di un buco nero, c’è luce e bisogna nuotare nel liquido amniotico della vita, per non autodistruggersi, e credere ancora, nonostante tutto, nell’uomo, in se stessi, nella capacità di sorprenderci, cambiare, morire al passato.
Ma per morire, bisogna nascere. Venire alla luce.
“Su una cosa, le vecchie colleghe erano d’accordo, e cioè che prima che le madri venissero dimesse, lei si chinava sulla culla e nel congedarsi dal bambino gli augurava sole, luce e calore.
Per l’esattezza, pare che dicesse “Che tu possa fare l’esperienza di tante albe e di tante tramonti.”
Queste parole si ritrovano nel necrologio della vecchia ostretrica. Perchè il seme e la cicala sembrano morti nel buio.
E tu, credi nell’uomo? Nella luce? Nell’opportunità di vita nonostante lo sfruttamento delle risorse e la negazione dei diritti?
Abbi voce. Abbi luce.
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Sinossi
I giorni che precedono il Natale sono tra i più freddi dell’inverno islandese.
E questa volta bisogna tenersi pronti a una tempesta eccezionale prevista per la notte della Vigilia.
Dýja se lo sente ripetere dalla sorella meteorologa, preoccupata per i fenomeni climatici estremi cosí come per l’organizzazione della tradizionale cena festiva.
Evento al quale Dýja non parteciperà perché, come al solito, è di turno.
Ma a lei non dispiace: più che un lavoro, il mestiere di ostetrica è una passione profonda. Quasi innata, giacché scorre nel sangue della famiglia da almeno quattro generazioni.
Eppure Dýja da ragazza non sognava di seguire gravidanze e parti. Determinante per la sua decisione di lasciare gli studi di teologia è stata l’influenza della sorella di sua nonna, la zia Fífa.
Dýja ha sempre amato e ammirato quest’anziana ostetrica dalle idee un po’ eccentriche sul mondo e sulla vita, che ha esercitato per quasi mezzo secolo nel reparto maternità dell’ospedale di Reykjavík, lo stesso in cui lavora adesso Dýja.
Qui Fífa, scomparsa da alcuni anni, è considerata un’istituzione, passata alla storia per i completini confezionati a maglia per ogni neonato, le deliziose torte allo sherry, le frasi enigmatiche sussurrate tra le culle.
Da qualche tempo Dýja occupa l’appartamento che ha ricevuto in eredità da Fífa.
Nonostante l’arredamento antiquato e l’impianto elettrico capriccioso, Dýja esita a rinnovare la casa, come se non volesse alterare la patina dei ricordi.