SOFONISBA ANGUISSOLA: una pittrice alla corte del re
a cura di Paola Treu
In un articolo precedente (Le Signore dell’arte italiana tra XVI e XVI secolo) ho già avuto modo di parlarvi del ruolo delle donne artiste nella società italiana dei secoli XVI e XVII, ripromettendomi di dedicare ad alcune di loro degli approfondimenti monografici.
La più famosa resta a tutt’oggi Artemisia Gentileschi, le cui vicende biografiche e artistiche sono ormai ben note. Ma, non è l’unica: infatti ben prima di Artemisia, circa sessant’anni, è Sofonisba Anguissola a essere ammirata e a ottenere importanti riconoscimenti.
È dedicato a lei questo primo articolo su quelle pittrici italiane che riuscirono a conquistarsi un posto nel mondo dell’arte dominato allora dagli uomini.
Cadute nell’oblio per un lungo periodo, oggi sono entrate a buon diritto nei più prestigiosi musei e celebrate con importanti mostre. In particolare, nel caso di Sofonisba, è la mostra di Cremona, allestita nel 1994, a farla rivivere in tutto il suo valore.
È infatti dimostrato che, erede dei più grandi artisti lombardi, veneti e parmensi e influenzata dalla scuola di Giulio Romano, anticipa Caravaggio e, alla corte di Spagna, l’innovativa pittura di Velasquez.
Sofonisba è inoltre meritatamente considerata una delle prime vere e proprie esponenti femminili della pittura europea e, soprattutto, la prima pittrice rinascimentale degna di questo nome. È la prima artista a conoscere un’autentica fama internazionale, in particolare nell’ambito della ritrattistica.
Nasce nel 1535, figlia di Amilcare Anguissola e Bianca Ponzoni, entrambi di famiglie nobili di Cremona, all’epoca della dominazione spagnola seconda città dello Stato di Milano per importanza e ricchezza. Il padre gioca un ruolo di primo piano nella promozione della lunga e per certi versi eccezionale carriera artistica della figlia.
Amante delle Belle Arti, Amilcare è un uomo e un padre incredibile, che sa fare qualcosa di insolito, superando i pregiudizi dei suoi contemporanei. Favorisce le sue aspirazioni, consentendole di studiare letteratura, pittura e musica, secondo quanto suggerito dagli umanisti più illuminati, come Baldassare Castiglione (lo stesso farà anche con le altre figlie).
Si forma prima presso la bottega del pittore manierista Bernardino Campi, dal quale impara a dipingere i ritratti dal naturale; successivamente, in quella di Bernardino Gatti, detto il Sojaro, che la indirizza alla raffinata scuola emiliana, in particolare del Correggio, trascurando quasi del tutto lo studio della composizione delle storie, sia sacre che profane.
A Sofonisba, inoltre, è precluso l’insegnamento della matematica, della prospettiva e della tecnica dell’affresco, considerate troppo impegnative per una donna.
Il suo talento emerge fin da subito e il padre ne sostiene il lavoro, promuovendone la notorietà. Amilcare è, in effetti, la vera forza trainante della vita artistica della figlia: fa dono delle sue opere a personalità di spicco, con lo scopo di far conoscere Sofonisba presso le corti d’Italia e di renderla famosa.
Un comportamento unico per quei tempi. Stabilisce contatti con Mantova, Ferrara, Parma, Urbino e infine con Roma per completarne l’educazione con nuovi maestri, e per promuoverne le doti, fino a ottenere l’attenzione e l’ammirazione di Giorgio Vasari (che le dedicherà una citazione nelle Vite) e persino di Michelangelo Buonarroti.
Gli anni cremonesi sono caratterizzati da un’intensa attività ritrattistica, nella quale Sofonisba si distingue in particolar modo, maturando uno stile speciale, introducendo vari elementi di novità. I modelli per le composizioni più ambiziose di questo periodo sono per lo più individuati nell’ambito familiare, come ne “La partita a scacchi” (1555), una delle sue opere più emblematiche, dal forte impatto innovativo, che assegna alla ritrattistica del tempo una naturalezza e una leggerezza, ravvivate da un approccio affettuoso, che sarebbero diventate poi tipiche, nel secolo successivo, della cosiddetta pittura di genere.
In essa sono ritratte con singolare vivezza tre delle sorelle Anguissola in abiti eleganti, dalle stoffe dorate. La prima a sinistra è Lucia; la piccola Europa ride di gusto, nella ripresa del tema già indagato in campo grafico; la letteraria Minerva parla accompagnandosi col gesto eloquente della mano.
L’anziana fantesca che si affaccia sulla destra rappresenta il divario tra la colta giovinezza e l’ignorante vecchiaia.
Gli scacchi sono considerati un gioco intellettuale e consentono pure una lettura allegorica al femminile. Lucia tiene infatti in mano la Regina, che è l’unica pedina realmente in grado di muoversi liberamente sulla scacchiera.
Di quest’opera il Vasari scrive:
“Dico di aver veduto […] in un quadro fatto con molta diligenza, ritrarre tre sue sorelle, in atto di giocare a scacchi, e con esse loro una vecchia donna di casa, con tanta diligenza e prontezza, che paiono vive, e che non manchi loro altro che la parola.”
Con Sofonisba il ritratto non è solo l’immagine della persona, ma accenna alla sua storia, riportando spesso con minuzia descrittiva elementi che, come pezzi di un puzzle, aiutano a svelare il soggetto raffigurato: un medaglione, un libro aperto, un guanto, un gioiello, ecc., secondo la maniera tipica della ritrattistica cinquecentesca, ma con l’aggiunta di un naturalismo diretto, di derivazione lombarda.
È così, ad esempio, nel dipinto che raffigura la sorella Minerva, resa identificabile grazie al medaglione con la rappresentazione della dea omonima, posto al collo della virtuosa.
Dei suoi ritratti notevole è la vivacità degli sguardi e la potenza espressiva dei visi, così somiglianti, “tanto benfatti che pare che spirino e che siano vivissimi”, scrive il Vasari non appena ha occasione di vedere i ritratti di famiglia in casa Anguissola, durante la sua visita del 1566.
Oltre ai membri della famiglia, altri personaggi sono ritratti da Sofonisba, rappresentati con un vivo interesse per la definizione psicologica attraverso l’osservazione diretta.
È il caso del dipinto che raffigura “Massimiliano Stampa”, con cui la pittrice si cimenta nel soggetto in piedi secondo il modello bresciano del Moretto e quello bergamasco del Moroni.
Il bambino, orfano da poco, conserva un volto spaurito e malinconico, e mostra tutti gli attributi confacenti al suo status: i guanti bianchi, l’anello e lo spadino. Si tratta di uno dei ritratti più intensi dell’infanzia mai realizzati nel Cinquecento. Il successo è grande, tanto che verrà replicato più volte.
Lo straordinario talento come ritrattista rende Sofonisba presto famosa e molto ricercata da tutte le principali corti italiane. Nessun’altra donna fino a quel momento ha ricevuto tanta attenzione.
Appena ventenne, infatti, ha già acquisito quella che Vasari definisce la freschezza del suo disegnare, evitando la maschera del volto per dedicarsi all’indagine psicologica.
Il suo genio creativo arricchisce le immagini con realtà interiori, fatte di sentimenti, emozioni, pensieri. Questa sua capacità di penetrare oltre l’apparenza e di portare alla superficie ciò che essa nasconde è il tratto distintivo dei suoi numerosi ritratti.
La notorietà di Sofonisba si diffonde anche grazie alla produzione grafica, che si radica nella cultura lombarda, con ascendenze nordiche. I disegni e le incisioni da essi derivanti testimoniano l’interesse per lo studio della teoria leonardesca dei moti dell’animo del riso e del pianto, fino allora poco considerati.
I suoi fogli cominciano a circolare in tutta Italia, grazie all’instancabile attività di tenace patrocinatore del padre, giungendo fino a Michelangelo (“Per la più cara cosa ch’io abbia, gli dedico essa Sophonisba per sua serva e figliola…”, arriva Amilcare a scrivere allo scultore toscano).
In genere sferzante nei suoi giudizi, Michelangelo, allora ottantaquattrenne, rimane colpito, in particolare dal disegno “Vecchia che studia l’alfabeto derisa da una bambina” (1550 c.) e le chiede di eseguirne un altro che mostri il sentimento contrario, del pianto e del dolore, più difficile da realizzare.
Sofonisba accetta la sfida e gli invia il famoso disegno “Fanciullo morso da un granchio” (1554).
Raffigura lo stesso fratellino “dal vero” che, morso dal crostaceo, fa una smorfia di pianto provocata dall’improvviso dolore fisico. È un’immagine davvero eccezionale per sua spontaneità e la sua intensa naturalezza, chiaramente debitrice degli studi di Leonardo sull’espressione dei sentimenti, e molto apprezzato da Michelangelo.
Tommaso Cavalieri, grande amico dello scultore, in una lettera al Granduca di Toscana Cosimo I, scrive in proposito:
“et credo che potrà stare a paragone di molti, perché non è solamente bello, ma ci è ancora inventione.”
Tale disegno, con ogni probabilità Caravaggio lo ha presente quando dipinge le due versioni del “Ragazzo morso da un ramarro”.
Nella sfera artistica di Sofonisba rivestono una significativa rilevanza gli autoritratti. Ne realizza diversi, in cui si ritrae sempre in abito austero, scuro e composto.
Vediamo una fanciulla dai grandi occhi chiari, dalla fronte spaziosa, con i capelli raccolti in una crocchia.
Il suo aspetto suggerisce l’idea di una bellezza disadorna e modesta, facendo risaltare l’immagine della virtuosa (a cui fa riferimento l’abitudine di firmarsi virgo) che ha sviluppato i propri talenti naturali, evidenziando la volontà di rappresentarsi come una donna nobile e colta.
Nella tela in cui si dipinge al cavalletto, con la tavolozza e lo stilo, dimostra chiaramente la propria consapevolezza di essere un’artista versatile e di valore.
Gli autoritratti sono sempre di formato ridotto e possono essere persino realizzati in miniatura, come nel caso del medaglione con il crittogramma che cela il nome del padre Amilcare, con artificio tipicamente manieristico che definisce l’aspetto intellettuale di Sofonisba, che crea sempre opere molto ricercate e costruite.
Riguardo ai soggetti di carattere devozionale, Sofonisba realizza piccoli quadri sacri da stanza, sempre diligentemente eseguiti, ma mai inventati dalla pittrice, bensì derivati dai dipinti di artisti famosi, come il suo maestro Bernardino Campi e, più tardi, Luca Cambiaso.
Nel 1559 Sofonisba lascia per sempre Cremona. La sua fama ha ormai varcato i confini nazionali e ha raggiunto la Spagna di Filippo II. Vi si stabilisce come dama di compagnia della regina Isabella di Valois, alla quale insegna a dipingere, sostituendo con tale novità le normali pratiche ritenute adatte alle donne.
I ritratti che Sofonisba realizza per la corte spagnola, pur rispettando i canoni imposti dall’etichetta e dalla tradizione, catturano aspetti personali della famiglia reale e sono dipinti con un realismo tale che ne sottolinea le peculiarità fisiche. E, seppur caratterizzati da una certa idealizzazione, rivelano una sottile notazione psicologica, grazie alla sensibilità di Sofonisba di “fissare un attimo interiore quasi insignificante”.
Nel “Ritratto di Filippo II” (1565) infonde al sovrano (all’epoca il più potente d’Europa) un’apparenza semi privata e, senza nulla togliere alla sua regalità, gli conferisce un’inedita umanità, resa con un delicatissimo tratto. Il sovrano ne resta così impressionato che le concorda una cospicua rendita annuale.
Nel 1573, ormai una vera dama matura, Sofonisba sposa il nobile siciliano Fabrizio Moncada e con lui, carica di doni e onori, si trasferisce in Sicilia. Rimasta vedova, si risposa con il nobile e capitano di nave Orazio Lomellini, che la porta a Genova, dove risiederà per i successivi trentacinque anni di vita.
La produzione di questo periodo mostra la grande maturità artistica raggiunta da Sofonisba e il suo nuovo aggiornamento sulla pittura settentrionale. Nei ritratti eseguiti in questi anni, si osserva una maggiore scioltezza della stesura pittorica e una più acuta introspezione psicologica.
Con il “Ritratto dell’Infante Isabella Clara Eugenia” (1599), crea un estremo capolavoro, ponte tra la cultura manieristica della corte spagnola e il nuovo secolo sopraggiungente.
Nel 1615 Sofonisba torna a Palermo, per seguire gli affari del marito, e nel 1624 riceve la visita del giovane Anton Van Dyck. Sebbene ormai molto anziana e cieca, affascina il pittore fiammingo con la propria lucidità e vivacità di conversazione, a tal punto che registra, in italiano, il loro cortesissimo incontro sul suo diario di viaggio, assieme allo schizzo a penna dell’artista.
Ammette di aver “ricevuto maggiori lumi e preziosi avvertimenti da una donna cieca che dallo studiare le opere dei più insigni maestri.”
A conferma dell’ammirazione di Van Dyck verso Sofonisba, ci resta il bellissimo ritratto ch’egli esegue nel 1625, poco prima della sua morte, avvenuta nel novembre di quell’anno.
Ci restituisce l’immagine sì veritiera e tenera di una donna molto in là negli anni, ma anche profondamente consapevole e orgogliosa di essersi affermata e di aver raggiunto la celebrità in un mondo fatto da e per gli uomini.