Ricordando Janine – l’Olocausto al Femminile
L’olocausto al femminile ha voci e volti: quello di Liliana Segre, che con grande forza ci racconta la sua esperienza di sopravvissuta, quello di Ginette Kolinka, che accompagna i giovani attraverso un viaggio della memoria a Birkenau, quelli di Andra e Tatiana Bucci, entrate ancora bambine e salve solo grazie alla loro somiglianza, quello delle donne che sono uscite dall’incubo, ma soprattutto delle tante che non ce l’hanno fatta.
Questo viaggio attraverso la Memoria non sarà facile, non sarà divertente: è quello attraverso le parole e i ricordi sempre più lontani, ma non per questo meno vividi, di chi è uscito dai campi di sterminio e ha trovato la forza di raccontare.
Chi è Janine? Janine è una giovane ragazza di cui non conosciamo nemmeno il cognome: una delle tante, una francese.
Scrive Liliana Segre in “La memoria rende liberi”:
C’è solo un episodio che mi ha tormentato tutta la vita…
Janine era una sua compagna di lavoro, una fortunata, perché invece che all’aperto, dove la morte mieteva molte più vittime in tutte le stagioni, era stata selezionata per la fabbrica di munizioni: un lavoro al coperto e su turni. Era un posto per fortunati, con alcuni grandi privilegi, fra cui quello di poter vedere un orologio. Sì, perché nel campo di Auschwitz fra le tante privazioni c’era anche quella del senso del tempo: a volte, per sopravvivere e tornare umani, bastava anche solo una percezione, una briciola di normalità come il poter vedere l’orologio. Non siamo nemmeno in grado di immaginare una cosa simile, oggi.
Liliana Segre conosce Janine in fabbrica. Lei ha tredici anni e viene assegnata come inserviente presso le macchine che tagliano il ferro, a una delle quali Janine, di dieci anni maggiore di lei, è addetta. Nonostante i divieti severi di comunicare fra prigionieri, le due ragazze scambiano qualche parola in francese: questo basta a creare un legame, a ritrovare un’altra briciola d’umanità. Finché Janine non ha un incidente alla macchina, che le taglia due dita. Sul momento viene medicata, ma è sufficiente arrivare alla selezione per decretare la sua fine: viene mandata alla camera a gas, perché divenuta inutile.
L’olocausto al femminile è fatto di nomi e di volti
Liliana racconta che quel momento in cui Janine viene portata via è uno dei più dolorosi ricordi della deportazione, non solo per la perdita dell’amica, ma per il fatto di non essere riuscita a dire o fare nulla. Janine, come mille e mille altre fu prelevata dalle file nel silenzio e nella solitudine più totali.
Non mi girai a salutarla, non le dissi neanche “che Dio ti benedica” … Tornai alla mia vita di sempre e il giorno dopo al suo posto c’era un’altra ragazza che tranciava il ferro.
Nei campi era così, non c’era posto per solidarietà o segni d’affetto: faceva parte del progetto dei nazisti, togliere ai prigionieri ogni tratto di personalità e umanità. Piccoli e grandi, affamati, spogliati di tutto e soprattutto della dignità di persone, combattevano ciascuno una battaglia contro la morte, nella quale non poteva esserci spazio per la solidarietà.
L’esperienza di Ginette Kilinka, a diciannove anni internata a Birkenau
Scrive Ginette Kolinka “bisogna essere eroiche per condividere”. Non parla di eroismo in senso lato, generico, buonista: si tratta di eroismo vero, perché un passo falso può essere quello che ti manda alla camera a gas. O magari, quello che salva un altro, ma non te.
Io non sapevo nemmeno com’era strutturato Auschwitz. Leggendo le memorie di queste donne ci sono entrata con loro. Non sapevo che Auschwitz era diviso in diversi campi più piccoli, che Birkenau era quello di sterminio vero e proprio. Ginette finisce qui, senza saperlo sta in una baracca proprio dietro ai forni crematori. Quando ci arriva, probabilmente i suoi parenti, con i quali ha condiviso il viaggio allucinante dalla Francia alla Polonia, sono già in quel fumo: sono stati caricati all’arrivo sui camion “destinati a quelli più stanchi”.
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L’olocausto al femminile – le donne non esistono più
In pochi giorni le donne smettono di essere donne.
Rasate, testa e pube (in un’epoca in cui non si spogliavano nemmeno davanti alle sorelle!), private di tutti i loro averi e rivestite con abiti recuperati nel campo, se abiti si possono chiamare gli stracci che vengono loro assegnati. Non tutte hanno i camicioni a strisce: le ebree non sono degne nemmeno di quelli. Le mutande sono una rarità.
Nel giro di qualche settimana, per gli stenti, le botte, le privazioni, le donne non hanno più il ciclo. Quelle che finiscono in ospedale non tornano quasi mai.
Quelle che vengono scelte come cavie vengono torturate in modi disumani, di cui ho orrore a scrivere.
Le donne vittime di sterilizzazione
Dalle testimonianze emerge tutta una serie di studi sulla sterilizzazione. Una delle ossessioni dei tedeschi era la selezione della razza ariana, per cui se alle donne tedesche era vietato abortire se non in casi estremi, si cercava di eliminare la progenie delle razze meno elette. Furono sperimentati raggi X e iniezioni di sostanze chimiche, i cui risultati furono fallimentari, ma che condussero alla morte quasi tutte le cavie umane. In ogni caso, chi rifiutava di partecipare, veniva gassato subito o freddato con un proiettile.
L’olocausto non è al maschile o al femminile, perché a tutti è stato tolto tutto, ma le sofferenze sono state declinate anche in base al sesso. Ai padri è stata tolta la possibilità di custodire le loro famiglie, alle madri l’accudimento della prole. Sorelle e fratelli sono stati separati.
Anne Frank la conosciamo tutti, ma nel suo diario ancora non c’è l’orrore, quello che comincia dopo la prima pagina bianca.
L’olocausto oggi
Sapete che cosa mi ha stupita leggendo le testimonianze di tutte queste sopravvissute? Di non riuscire, leggendo, a provare il dolore. Il dolore delle bastonate, il freddo dell’inverno, la fatica di camminare nella neve coi loro zoccoli. Ero con loro e nello stesso momento non c’ero.
Ero al riparo nel mio letto, sotto una calda trapunta e sul mio cuore scendeva il gelo, quella brina che, nel vagone senza tetto, ha coperto le prigioniere in trasferimento in una notte di gennaio proprio come queste che anticipano la giornata della memoria.
Le marce della Morte, in tutto il loro orrore, si snodano davanti agli occhi del lettore. Camminare o morire. Per centinaia di chilometri.
No, davvero, per noi è impossibile immaginare, il tempo ha sterilizzato a sufficienza questo orrore da rendere oggi i campi di concentramento musei nemmeno troppo impressionanti. Scrive Liliana Segre che quei film che a noi hanno fatto tanto commuovere, come La vita è bella, sono FAVOLE. Che l’unica realtà che troviamo è che il padre, sì, sarebbe stato ucciso così.
Se queste sono favole, mi chiedo se non siamo tornati troppo bambini per comprendere appieno la verità. Bambini che non sono in grado di vedere la durezza della verità tutta intera.
Cominciamo a dubitare che sia stato tutto vero: i testimoni stanno morendo di vecchiaia e a breve non saranno altro che le loro parole contro una civiltà che sta andando troppo veloce per aver voglia di soffermarsi troppo.
Una gita ad Auschwitz.
“Non sostate troppo a lungo, per favore” …
“La morte sopraggiungeva velocemente, si moriva in soli venticinque minuti”.
Venticinque minuti in camera a gas.
Che cosa accomuna tutte le testimonianze?
Non solo il quadro che emerge dalle difficili parole, ma soprattutto il lungo tempo di latenza che hanno richiesto per uscire. Essere sopravvissuti non è il termine corretto per descrivere chi è uscito vivo dai lager. Nessuno, in realtà, è mai più davvero tornato. Là, dietro quel filo spinato, nelle baracche, davanti alle pile di cadaveri, tutti sono morti. Chi è tornato non ce l’ha fatta, subito a raccontare che cosa aveva patito: Depressione, piccole terribili manie difficili da perdere. Chi è uscito dai lager ha dovuto rinascere, prima di poter tornare laggiù condividendo i ricordi.
Sappiamo quanto sono preziose le loro parole e che prezzo alto sono costate.
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