“La silenziosa ribellione di Emily Dickinson” di Sara Staffolani
Ѐ notte fonda.
Emily, come di consueto, è china sul suo piccolo scrittoio in legno di ciliegio a scrivere su minuscoli frammenti di carta. La sua grafia è leggera, agile e spavalda, come un veliero che solca i mari sfiorando appena l’acqua del mare, che non vuole farsi inseguire da alcuno.
La sua fedele candela emette qualche lieve crepitio, ma arde fieramente. La silenziosa ribellione di Emily ha inizio proprio da quel lume acceso, da quel suo attardarsi notturno a scrivere. Emily sa che deve scrivere tutte quelle parole, altrimenti, dispettose come sono, fuggirebbero via nel nulla, e, risentite per l’insulto di essere state ignorate o scacciate via, non tornerebbero mai più. Come potrebbe dormire con una simile compagnia e con tali pensieri in testa? Suo padre le ha accordato il suo permesso. Lei sa quale grande e prezioso regalo sia. Nessun uomo avrebbe mai acconsentito a tale libertà.
La sua volontaria reclusione non le pesa. Quel mondo superficiale e crudele da cui rifugge la vorrebbe figlia obbediente di un padre padrone, e moglie passiva e sottomessa di un marito tiranno: in entrambi i casi, una schiava domestica.
Il mondo ha relegato le donne ai focolari domestici; ha confezionato per loro silenzi e graziose gabbie e pretende anche che costoro siano grate della cortesia ricevuta, come se non valessero alcunché, come se non contassero nulla. Come se non fossero esseri pensanti o viventi.
In quella stanza Emily ha tutto ciò che le occorre: un ampio giardino da ammirare e curare, i fiori colorati che ha trapiantato sul davanzale che la allietano, i dolci animaletti che la vengono a trovare dalla sua finestra, tanti libri da leggere e soprattutto, l’immaginazione.
Dolce e fedele amica, l’immaginazione veicola la felicità umana. Emily l’ha compreso e sa anche che la solitudine non è un peso o una condanna, ma un arricchimento dell’anima, un vivere interiore ancora più intenso e appassionato. Anche la “grandissima” Emily Brontë lo sosteneva. Senza quella reclusione non sarebbe poesia. Senza quella solitudine non sarebbe Emily.
All’improvviso, il canto irrequieto di una civetta irrompe nel silenzio notturno. Ѐ vicina. Emily smette di scrivere di scatto, si alza e, lentamente, senza far rumore, si accosta a una delle sue finestre. Non riesce a vederla, ma dal canto così ravvicinato ha l’impressione che si sia posata su uno degli alti alberi del giardino.
La civetta, come se avesse avvertito uno sguardo umano su di sé, si innalza nuovamente in volo, lanciando un piccolo grido di saluto e scomparendo nell’oscurità della notte. Ora Emily riesce a scorgerla bene: è una candida civetta, bianca come il suo abito.
Emily fissa incantata il suo volo. Sembra ipnotizzata. Anche lei vorrebbe possedere quella sfrontata libertà di volare ovunque e sfidare il mondo. Nessuno la prenderebbe, nessuno oserebbe interferire con il suo volo infinito, neanche la morte. Poi si volta con un sospiro e torna a sedersi al suo scrittoio, pensierosa. Fissa quei piccoli foglietti di carta e inizia a cucirli sapientemente con ago e filo.
La sua poesia volerà e canterà per lei. Le ha affidato i segreti del suo cuore che nessuno conosce, che nessuno può o vuole comprendere.
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