Kehinde Wiley… e lo “status portrait” è di nuovo moda!

Kehinde Wiley arte moderna

Kehinde Wiley – Le Roi a la Chasse, 2006 / Kehinde Wiley – Shantavia Beale II, 2012.

Per lungo tempo (soprattutto a partire dal XV secolo) il ritratto di rappresentazione di status ha costituito uno strumento di propaganda fortissimo per l’aristocrazia e, in seguito, per l’alta borghesia: esso traduceva in termini visivi il rango sociale e il potere politico del soggetto dipinto.

Ambienti, abiti, ornamenti, ma anche postura, sguardo e mimica facciale venivano coordinati secondo una studiatissima mise en scène che diventava automaticamente un biglietto da visita della propria ricchezza.

Dalla seconda metà del XIX secolo (con il trionfo del ritratto d’introspezione psicologica) l’accezione autocelebrativa di questo genere pittorico si perde… tanto più che, con l’avvento delle avanguardie novecentesche, si afferma un nuovo criterio di espressione creativa: la soggettività.
Oggi, tuttavia, una nuova star della scena artistica internazionale, Kehinde Wiley, riporta l’attenzione sull’obliato e desueto status portrait e lo fa, ovviamente, infrangendo le regole del gioco: citando la ritrattistica rinascimentale (le madonne quattrocentesche di profilo), quella barocca (figure intere poggiate con sussiego sul proprio bastone da passeggio) e quella neoclassica (vedi Auguste Dominique Ingres) provoca però un effetto di “straniamento” inserendo al posto degli aristocratici occidentali (i Grand Blanches), i più noti rapper e gangster della scena South Central di Los Angeles.

Vediamo, quindi, muscoli oleati (sfoggiati con indumenti street style) che si combinano sia con le pose anacronistiche (per i tempi) sia con sfondi ipercolorati (che suggeriscono ora i tessuti a meandro del XVI secolo, ora i murales messicani e le vetrate gotiche).
E’ risaputo ormai che la riscossa del ghetto afroamericano abbia spesso avuto come cifra stilistica l’esibizione di status (catenoni d’oro, grillz e logomania) spesso sconfinando nel pacchiano ed è quindi più che naturale che si sia “appropriata” anche di un genere pittorico che contraddistingue il nostro “ancien régime”, perché proprio quel genere esprime il fatidico,

“Ce l’ho fatta! Anche io posso (permettermi questo o quest’altro)!”

Quello che è meno chiaro – e francamente più affascinante da decrittare – è se questo pittore statunitense, originario della Nigeria, abbia assimilato con devozione l’intento celebrativo dello status portrait oppure lo metta in discussione attraverso una sua caricatura (e quindi ironizzando su un tratto specifico dell’attuale afro-culture).

Iconolatria o iconoclastia? Ai posteri l’ardua sentenza!

Nel frattempo, neanche il democratico Barack Obama (fedele al motto “Yes, you can!”) ha saputo resistere alla tentazione di farsi immortalare dal celebre ritrattista (ottobre 2017) per inserire la sua emblematica immagine nella Smithsonian National Gallery of Portraits di Washington.

“Vanità/

L’illusione

Docile si arrende al dio migliore”

(Giorgia docet).

Articolo di Fabrizio CasuFashion designer, esperto di storia del costume.