“Il gioco del sorcio” di Mery Carol

Contest Amarcord

Bisognava essere piccoli e magri per potersi infilare nella cunetta dell’acqua piovana che passava sotto i lastroni di cemento da un lato all’altro della strada.
Per fare tutta la traversata bisognava procedere carponi a quattro zampe nel primo tratto, poi, nel tratto centrale, strisciare sui gomiti e di nuovo sulle ginocchia nel tratto finale finché la testa, sporca di terra e di muschio, non spuntava all’aperto a respirare tra il plauso dei compagni e la disapprovazione degli anziani, che se ne stavano come lucertole al sole sulla panchina sotto il noce.

Era più che un gioco, molto più di un gioco. Era una prova di coraggio, un misurarsi con se stessi e con il gruppo e, naturalmente, riservato a pochi eletti.

Chi superava il primo tratto senza tornare indietro e subire la gogna della ciurma, era costretto ad arrivare fino in fondo al cunicolo per uscire e conquistare l’aria e l’alta considerazione dei compagni.
Da quel momento in poi le parole dell’eroe erano ritenute degne di attenzione.

Era il gioco del sorcio. Cimentarsi e superare la prova significava vincere la paura, tutte le paure.

Santino era il più piccolo del gruppo: mingherlino e piagnucolone. Sempre attaccato alla giacchetta di Sabatino, il fratello di quattro anni più grande.
Guai a loro se non rispettavano gli ordini della madre!
Niente giochi pericolosi e mai e poi mai il gioco del sorcio.
Non allontanarsi mai dallo spiazzo davanti alla casa.
Non staccarsi mai l’uno dall’altro.
Rincasare al primo richiamo di mamma senza fiatare.

Il vecchio copertone di bicicletta faceva un male da morire sulle natiche ed era sempre in vista e a portata di mano.

Quel lunedì mattina Sabatino e gli altri erano a scuola con assai poco entusiasmo; Santino era costretto a letto con gli orecchioni, più piagnucoloso del solito. Si toccava le orecchie e, a dire il vero, non gli sembravano cresciute. Si sentiva strano, questo sì. In fondo, meglio il letto che la scuola!

La madre gli aveva raccomandato di non muoversi dal letto che lei aveva da governare le bestie nella stalla e fare la provvista d’acqua alla fontanella. Avrebbe fatto tutto in fretta prima di cimare la cicoria e pelare le patate per la minestra.

A Santino parve che la madre tardasse a rientrare e decise di affacciarsi sull’uscio per dare un’occhiata. Calzò i suoi zoccoletti e in men di niente si ritrovò tutto solo nello spiazzo lì davanti.
La bocca del cunicolo del sorcio a un passo dai suoi piedi.
Il cuore prese a battergli all’impazzata. Le voci dei compagni gli urlavano cattive:
«Dove vai, pisciasotto? Piscia…sotto…piscia…sotto…piscia…sotto…!»

Santino si sistemò i cinturini degli zoccoletti, s’inginocchiò, abbassò la testa, mani a terra e iniziò il percorso del sorcio dimentico del vecchio copertone e di quanto facesse male sulle natiche.

I primi spostamenti piccoli e lenti, ma si poteva anche accelerare!
«Tutto qui?», pensò Santino con nelle orecchie le urla indistinte dei compagni e il cuore battente come il tamburo di Pasquino il banditore.
Avanti, avanti… fino a mezzo del passaggio dove bisognava appiattirsi e strisciare come un geco.
«Anche questa è fatta! Tante storie per una passeggiata appena sotto il livello della strada! E che ci vuole?»

Santino, sorpreso dalla facilità dell’impresa, sorrise e si avviò spedito a quattro zampe verso l’uscita del cunicolo.

Man mano che avanzava, il fascio di luce là in fondo si allargava sempre più e Santino se ne rallegrava.
Ancora qualche passo e sarebbe tornato all’aperto.
Il cuore gli rullava sempre più e le voci erano sempre più stridule.
Gli pareva di sentire, ora, anche lunghi suoni di campane. Forse erano i campanacci di una morra di pecore in trasumanza: proprio nelle orecchie, dentro dentro le orecchie.
Santino appoggiò la fronte a terra, si portò le mani alle orecchie per attutire quello strepitio insopportabile e strinse forte gli occhi feriti dalla luce.

Suonava la mezza. I ragazzi all’uscita dalla scuola si rincorrevano schiamazzando.
Lo spiazzo davanti alla casa era affollato; i vicini si davano voce e i vecchi si trascinavano sui bastoni verso le proprie case.

Santino sentiva il calore delle labbra della mamma sulla fronte e la sua voce all’orecchio che sussurrava:
«Poi faremo i conti…»