“Bingo” di Ruscio Cent’anni

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Volevo bene a mio padre,
c’era sempre mio padre.

Tornavo a casa e chiedevo:
“Dov’è mamma?
Lui ogni volta rispondeva:
“Al bingo”.
Io non sapevo cosa fosse bingo,
ma quando in terza elementare la maestra mi regalò un orsacchiotto,
lo chiamai così.

Volevo bene a mio padre,
tanto bene a mio padre,
fu la prima persona a cui presentai il mio nuovo amico peluche.
Lui me lo tolse dalle mani,
lo posò sul divano,
e chiese:
“Vuoi più bene a me o a Bingo?”
Alla televisione due bambini si davano il cinque e gridavano:
“Do you Ringo?”
Quella frase m’è rimasta impressa.
Accarezzava le gambe,
ero la sua principessa,
baci sulla bocca e mi sentivo Lilly,
non faceva mai la barba,
aveva in volto più peli del Vagabondo,
e gli ho voluto bene fino in fondo.
Certo che mi fidavo,
facevo quello che voleva,
ero la sua figlia preferita,
la sua ragione di vita,
quanto mi piaceva.

L’ho confessato a mia sorella,
che l’ha raccontato a un amica,
che l’ha detto alla maestra,
che è andata alla polizia,
e io piangevo e gridavo:
“Ti voglio bene papà”.
Mentre dei signori cattivi lo portavano via.

Ora sono diventata grande,
lo psichiatra ci ha lasciato soli al colloquio,
io e il primo amore,
il mio unico fidanzato.
Ha scontato la sua pena,
ha finito,
ora è pulito.

Mi ha detto ti amo,
ha fatto ssht con un dito,
mi ha abbracciato,
e poi si è rivestito.