Sacro e profano in Grazia Deledda

di Emma Fenu

Grazia Deledda

 

Leggere i classici è paradossalmente semplice: un capolavoro consente di coinvolgere attraverso vari livelli di interpretazione, soddisfacendo anche un fruitore ancora immaturo.

Più arduo è cimentarsi nella critica di essi introducendo spunti di riflessione e misurandosi con secoli di critica letteraria, tenendo conto che non si potrà essere originali, ma ci muoverà su terreni ampiamente battuti.

Vi propongo, oggi, un articolo brevissimo che ha lo scopo di stimolare la curiosità intellettuale e tenere vivo il dibattito su una fra le più amate scrittrici italiane: Grazia Deledda.

Partiamo da una considerazione.

Le fiabe sarde sono espressione del sincretismo fra paganesimo e cattolicesimo nell’ambito della narrativa orale, che si dirama dalla superstizione dei rituali per diventare memoria collettiva di un popolo.

Nei “racconti del focolare” (contos de foghile), destinati a piccoli e grandi, le vicende di fate, streghe, orchi e folletti si intrecciano con interventi della Vergine Maria, dei Santi e, perfino, di Dio.

Ovviamente non mancano i diavoli, con Babbu Satana al vertice.

Tutte le figure citate, che agiscono in qualità di protagonisti, aiutanti o antagonisti, in pieno rispetto della canonica morfologia della fiaba, sono fortemente umanizzate, anche quelle assimiliate dal contesto religioso.

Così, quasi come se il Gennargentu fosse l’Olimpo dell’Isola, le divinità della tradizione sarda sono animate da passioni e, in conseguenza di ciò, non sempre sono rette e imperturbabili.

A ciò si aggiunge che il concetto di giustizia è strettamente connesso con il perseguimento personale della vendetta, derivato dal codice legislativo emanato da una donna, Eleonora d’Arborea, giudichessa alla fine del XIV secolo.

Deledda
Su uno substrato etnografico di rigido dogmatismo, superstizione, sincretismo e rispetto del codice barbaricino (erede della lex medievale), Grazia Deledda costruirà la propria opera.

Secondo la scrittrice sarda, ogni individuo è macchiato da una colpa primigenia: tale convinzione  deriva sia dalla lettura ermeneutica della Genesi, in merito al peccato originale, sia dalla assimilazione della tragedia greca per cui i figli sono destinati ad espiare l’hybris dei padri.

Esiste, quindi, un fato che spinge compiere il bene o il male riducendo, in tal modo, la responsabilità del singolo, che agisce in conseguenza della imperfezione della Natura, comune a tutti, e di un’indole insita nel sangue.

Giungiamo, così, ad un punto non di arrivo, ma all’inizio di un percorso emeneutico.

Come ripristinare l’ordine compromesso in seguito al compimento del peccato?

Tramite l’individuazione di una vittima, ossia di un capro espiatorio che diventa eroe mitico, garantendo la collettiva catarsi.

Ed ecco che in Grazia Deledda si rinnova l’eterno sincretismo sardo: la vendetta trova giustificazione naturale e concorre al progetto salvifico dell’umanità, sublimato nella morte di Cristo, agnello condotto al macello.
 Grazia Deledda