Dio odia le donne – di Giuliana Sgrena
Recensione di Veronica Sicari
Dio odia le donne è un libro di Giuliana Sgrena, edito da Il Saggiatore nel 2016.
“Dio, Allah, Buddha. Comunque lo si chiami, è in suo nome che gli uomini scatenano il loro odio contro le donne.
La Bibbia, la Torah o il Corano sono gli strumenti di questa aggressione, spesso utilizzati a sproposito. E quando non bastano le Sacre Scritture vengono in soccorso i santi per chi li venera, i miracoli per chi ci crede, gli hadith del Profeta (veri e falsi), i dogmi.Le religioni costituiscono l’alibi del patriarcato”.
Si apre così l’interessantissimo libro di Giuliana Sgrena, dal titolo – innegabilmente forte – Dio odia le donne.
Pur senza pretesa di esaustività, come la stessa autrice confessa nell’introduzione al testo, Dio odia le donne presenta ai suoi lettori una personale ricerca sulle cause del patriarcato che, nei secoli, hanno portato all’instaurazione di una società fortemente misogina, che ha finito per avvelenare la
vita delle donne e a mutilarne qualsivoglia ambizione.
Tale ricerca prende ad oggetto le tre religioni monoteiste che, al netto di contrapposizioni squisitamente dogmatiche, finiscono per trovare un comune denominatore nel loro modo di guardare al mondo femminile.
Nel libro, vengono affrontati diversi temi inerenti alla condizione femminile: ognuno di questi viene analizzato alla luce della diversa confessione religiosa, giovandosi dell’ausilio delle fonti.
Innanzitutto, l’autrice analizza l’origine della misoginia, avvalorata dal mito della creazione: Eva, la prima donna, fu creata per intrattenere Adamo, poiché nessun animale si era mostrato adatto allo scopo.
Proprio in ragione della sua inferiorità rispetto all’uomo, è proprio la donna a marchiarsi del peccato originale, condannata a trascorrere l’intera esistenza nella speranza di riscattarsi.
Ad onor del vero, la misoginia non è nata con le religioni monoteiste: Aristotele, il grande filosofo greco, teorizzò l’inferiorità della donna e la sua incapacità di pensiero razionale, nonostante la cultura greca e in parte anche quella latina, abbiano attraversato delle brevi parentesi di parità tra i sessi.
Nonostante la stessa letteratura ci offra esempi di donne forti, come Antigone o Medea.
Ma costituiscono, tuttavia, eccezioni.
La natura biologica delle donne viene utilizzata per confinarle ai margini della vita pubblica, e spesso anche di quella privata. Il ciclo mestruale, il periodo della gravidanza e quello immediatamente successivo al parto sono stati considerati, secondo i testi sacri, prova tangibile della lordura della donna.
Nei testi religiosi non mancano passaggi nei quali si vieta alle donne di avvicinarsi al tempio durante il periodo mestruale, o di partecipare alle cerimonie dopo aver partorito.
Agli occhi di chi vive in un mondo secolarizzato, tali precetti appaiono anacronistici, e legati ad un passato ormai superato. Così non è.
In un suo rapporto del 2014, Amnesty International ha denunciato come in Nepal, ancora oggi, le donne siano costrette a vivere per diversi giorni nelle stalle con le mucche.
Questa segregazione fisica delle donne in ragione del ciclo mestruale appartiene anche a culture diverse da quelle legate alle tre religioni monoteiste: sempre in Nepal, le comunità induiste prevedono che le donne, nel periodo mestruale, trascorrano il loro tempo in caverne appositamente previste per loro.
Sebbene la legislazione nazionale del 2005 abbia vietato queste pratiche particolarmente pericolose per la salute delle donne costrette a subirle, si tratta di una tradizione dura da sradicare.
Dal velo alla terribile piaga delle mutilazioni genitali femminili, pratica purtroppo sempre più diffusa anche nel mondo occidentale, a causa dei fenomeni migratori, ciò che è evidente è la prominente sessuofobia che sta alla base della cultura misogina che ovunque cerca di ridurre, e spesso ci riesce, le donne al silenzio.
In particolare, per quanto attiene le mutilazioni genitali femminili, a far data al 2016 il primato europeo di diffusione della pratica era detenuto dall’Inghilterra: in questa classifica dell’orrore, l’Italia si collocava al secondo posto, con circa 40.000 donne infibulate.
Ad oggi, nel nostro Paese, tale pratica di mortificazione del corpo costituisce reato, grazie alla legge n. 7 del 9 gennaio 2006, punto di approdo di una polemica che infiammò il dibattito pubblico per diverso tempo.
Un medico somalo, nel 2004, aveva espressamente chiesto la possibilità di praticare Mfg in regime ospedaliero, ottenendo il parere positivo del Comitato Bioetico della Toscana.
Tuttavia, una campagna di sensibilizzazione portata avanti da un’associazione di donne immigrate provenienti da Paesi nei quali la pratica è particolarmente diffusa, sono riuscite ad impedire che la mutilazione ospedalizzata potesse trovar spazio.
Nonostante l’opposizione di quelle donne che ben conoscevano l’orrore di quegli interventi di macelleria umana, tuttavia talune antropologhe si sono
schierate a favore delle Mfg in regime ospedaliero, in ragione del carattere fortemente identitario dell’intervento.
Un’identità basata, evidentemente, nella mutilazione permanente ed irreversibile della sessualità femminile, mai di quella maschile.
Celarne l’aspetto esteriore, privarle della parola negli spazi pubblici, ridurre la loro libertà di movimento, mutilarne per sempre la vita sessuale: sono tutte pratiche, tradizioni, che continuano ad essere perpetrate seguendo l’alibi dei dogmi religiosi, spesso assurti a vere e proprie regole di diritto.
Un diritto che, di diretta derivazione divina, non tutela mai le istanze femminili.
È ciò che avviene, ad esempi, con la disciplina che regola il divorzio nei paesi musulmani: l’istituto sebbene non sconosciuto, è piegato alla volontà maschile. Pagando, e a caro prezzo, ad una donna è concesso di divorziare dal proprio marito, qualora questi sia d’accordo. Ma in caso di figli, è all’uomo che resta la tutela legale.
Sebbene parrebbe che la legge coranica preveda una sorta di separazione consensuale tra i coniugi, l’istituto è citato laconicamente in un solo versetto e non trova esplicita disciplina. Viene dunque integrato dalle interpretazioni che di quei versetti vengono fornite. Da uomini, chiaramente.
Al contrario, il ripudio è largamente teorizzato, e può essere sostenuto dalle più diverse e disparate cause. Il marchio di infamia di moglie ripudiata ha spinto diverse donne a vivere nell’indigenza o a guardarsi da vivere con la prostituzione.
All’uomo è concesso di ripudiare la propria moglie per i motivi più disparati, finanche la malattia: secondo le statistiche, sono diverse le donne musulmane morte a causa di tumore al seno.
Evitano i controlli periodici, unico vero mezzo di prevenzione in caso di tali patologie, per timore che il marito possa utilizzare l’insorgenza della malattia come giustificazione per un ripudio.
Il silenzio, tuttavia, si dimostra fatale quanto e più del marchio di infamia.
Il viaggio che l’autrice ci permette di compiere attraverso l’analisi delle scritture e di come la loro interpretazione più fanatica finisca per mortificare l’identità femminile ha lo scopo di indurci a riflettere.
Ed è proprio questo l’obiettivo dichiarato dalla stessa Sgrena:
“Spero che questo libro possa contribuire al dibattito, in un momento in cui la crisi dei valori porta a un diffuso bisogno di spiritualismo, che vede prevalere – credo non a caso – le forze più aggressive e fondamentaliste a scapito delle più ‘moderate’ (ammesso che si possa parlare di moderazione in questo campo).
Così avviene in Medio Oriente tra sunniti, sciiti ed ebrei, in Birmania con i buddhisti, in India con gli indù, in Occidente con i cristiani. E le vittime dei fondamentalismi sono principalmente le donne”.
Lungi dall’attaccare o dal voler giudicare il bisogno di professare una fede religiosa, espressamente prevista quale diritto fondamentale dell’individuo dalla nostra stessa Costituzione, è necessario tuttavia tenere alta la guardia: rinunciare all’evoluzione culturale, alla secolarizzazione, inseguendo un vacuo e arcaico mito della tradizione, in diversi luoghi del mondo si tenta innalzare a caratteri identitari di un popolo strumenti di mortificazione dell’identità femminile.
Come se privare della dignità umana la metà di una popolazione potesse realmente costituire la base di un patto sociale tra gli individui della medesima comunità.
Non ha ragione di esistere, e non potrebbe essere altrimenti, una società che possa chirurgicamente ridurre al silenzio, e dunque eliminare, le donne.
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Sinossi
Quando si tratta di discriminare la donna, le principali religioni monoteiste sono tutte d’accordo.
Ogni donna sarà etichettata come figlia di Maria o figlia di Eva: la donna è l’origine del peccato, la tentatrice che seduce e porta alla perdizione.
E allora la religione, alibi del patriarcato, serve per opprimere e sconfiggere, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio; e allora serve un dio maschio, un figlio di dio maschio, un profeta maschio, sacerdoti maschi.
Norme, tradizioni e costumi hanno l’unico scopo di perpetuare il controllo sociale sulla donna, spesso grazie alla sua pia connivenza, ancora più spesso attraverso l’assuefazione alla violenza.
Giuliana Sgrena svela e denuncia tutte le forme di questo odio nei confronti delle donne.
Da fenomeni estremi come l’infibulazione «faraonica» e lo stupro di guerra, che se ripetuto per dieci volte fa sì che la donna sia finalmente convertita, a tragedie dolorosamente quotidiane come il femminicidio, versione contemporanea ma non meno cruenta del delitto d’onore, con cui il maschio rivendica il possesso della moglie, figlia, sorella, il diritto di deciderne la vita o la morte.
Ma esistono anche prevaricazioni più sottili e subdole, come l’ideale di purezza e verginità, che condiziona le donne nelle scelte di vita, nel ruolo sociale, perfino nell’abbigliamento.
Giuliana Sgrena manda in frantumi le consuetudini e risale alla radice stessa della sottomissione femminile, mostrando quanto ancora oggi la legge della religione riproduca la subalternità della donna al «primo sesso».