Bartleby e compagnia di Enrique Vila-Matas

Voce all’Altrove

Recenzione di Cynthia Collu

Bartleby compagnia

Bartleby e compagnia è un libro scritto di Enrique Vila-Matas ed edito da Feltrinelli nel 2002. 

Di cosa tratta Bartleby e compagnia?

Questo è un libro per me geniale e pericoloso allo stesso tempo.
Geniale.

Bartleby e compagnia parte dallo straordinario racconto di Melville, Bartleby lo scrivano, per parlarci della pulsione negativa, dell’attrazione verso il nulla che fa sì che molti scrittori, “pur avendo una coscienza letteraria molto esigente, o forse proprio per questo” finiscano col non scrivere più.

I Bartleby, insomma, sono quegli esseri che ospitano dentro di sé una profonda negazione del mondo.
Il Bartleby di Melville, da cui parte Matas, decide improvvisamente – per motivi che al lettore non saranno mai dati conoscere – di rispondere a qualsiasi richiesta, dalla più semplice alla più normale in ambito lavorativo,
“Preferirei non farlo” (I would prefer not to).
Rimarrà in piedi per ore a guardare fuori dalla pallida finestra dietro un paravento, non uscirà mai, non berrà né tè né birra, dormirà di nascosto nello stesso ufficio. Bartleby, semplicemente, ha deciso di negarsi al mondo.
Vila-Matas decide di seguire le tracce della letteratura del No, quella di Bartleby e compagnia, ed ecco che si addentra nel labirinto “inquietante e attraente” della “autentica creazione letteraria” esamina cioè la tendenza della letteratura contemporanea che, ritenendo impossibile la scrittura, s’interroga su che cosa sia e dove si trovi.
“Solo dalla pulsione del No può sorgere la scrittura dell’avvenire.”
“Ma come sarà tale letteratura? ” chiede a Vila-Martas un collega d’ufficio. Risposta.
“Non lo so. Se lo sapessi, la farei io stesso.”
Ed ecco che Vila-Matas, in quelle che lui chiama “Note a piè di pagina”, sprofonda nella vita e nelle motivazioni di scrittori più o meno famosi (ma anche di esimi che avrebbero potuto scrivere e hanno deciso di non farlo)  che decidono di appartenere alla compagnia dei Bartleby.
Tanti nomi, tante note-gioiello: da Robert Walser, che addirittura si mette a fare il copista come Bartleby, a Juan Rulfo, che dopo aver scritto “Pedro Paramo”, per trent’anni non scrive più nulla e che, quando gliene chiedono il motivo, risponde:
”E’ che è morto lo zio Celerino, quello che mi raccontava le storie”.
Da Felipe Alfau, una specie di Salinger catalano, che si nascose nell’ospizio di Queen e che ai giornalisti che alla fine degli anni ottanta cercavano d’intervistarlo, rispondeva schivo “Il signor Alfau si trova a Miami”, a Rimbaud che scrisse tutte le sue opere entro i diciannove anni e poi più niente sino alla fine dei suoi giorni; da Robert Musil che trasformò quasi in mito l’idea di un “autore improduttivo! ne “L’uomo sena qualità”,  a Marcel Bénabou che in “Perché non ho scritto nessuno dei miei libri” dichiara:
“Soprattutto non creda, lettore, che i libri che non ho scritto siano un emerito niente.
Al contrario (che sia chiaro una volte per tutte) sono come sospesi sopra la letteratura universale”.
L’elenco sarebbe infinito. Ciò che ritiene Vila-Matas è che molti, come Hoderlin e Walser
“continuarono comunque a scrivere “.
Marguerite Duras diceva:
“Scrivere è anche non parlare, è’ tacere, è  urlare senza emettere suoni.”

Ho deciso quindi semplicemente di riportare alcune citazioni, e lasciare a voi il piacere della lettura di questo libro, che spero vi dia tanto quanto ha dato a me.

Jaime Gil de Biedama:

“Forse bisognerebbe dire qualcosa di più su questa faccenda del non scrivere. Molte persone me lo chiedono, io stesso me lo chiedo.
E chiedermi perché non scrivo porta inevitabilmente a un interrogativo molto più sconvolgente: perché ho scritto? In fin dei conti quel che è normale è leggere.
Le mie risposte preferite sono due.
Una, che la mia poesia rappresentava – senza che io lo sapessi – un tentativo d’inventarmi un’identità; una volta inventata, e accettata, non mi capita più di mettermi completamente in gioco in ogni poesia, che è ciò che prima mi appassionava.
L’altra, che è stato tutto uno sbaglio: io credevo di voler essere un poeta, ma in realtà volevo essere una poesia.”
Keats, nella lettera a Richard Woodhouse del 27 ottobre 1818, parla della “capacità negativa” del buon poeta, che è chi sa prendere le distanze e rimanere neutrale rispetto a ciò che dice, come fanno i personaggi di Shakespeare, entrando in comunione diretta con le situazioni e le cose per trasformarle in poesia.
In tale lettera nega che il poeta abbia una sostanza propria, un’identità, un “io” dal quale parlare con sincerità.
Per Keats, un buon poeta è piuttosto un camaleonte, che trova piacere tanto nel creare un personaggio perverso quanto uno angelicale. Il poeta
“è tutto e niente: non ha carattere, gode della luce e dell’ombra.”
“Un poeta è l’essere meno poetico che ci sia, perché non ha un’identità: sostituisce e riempie costantemente un qualche corpo”.
 Pertanto, conclude Keats:
“Se il poeta non ha entità in sé e io sono un poeta, cosa c’è di stupefacente nel fatto che io manifesti l’intenzione di smettere di scrivere?”
scrive Kafka:
“Così mi scorre tranquilla la domenica, così scorre la domenica piovosa.
Sto seduto in camera da letto e dispongo di silenzio, ma al posto di decidermi a scrivere, attività nella quale l’altro ieri, ad esempio, avrei voluto immergermi con tutto me stesso, ora sono rimasto a lungo a fissare le mie dita.
Credo di essere stato totalmente influenzato da Goethe questa settimana, credo di aver appena esaurito il vigore di tale influsso e pertanto di essere diventato inutile.”
Per il poeta Edmundo Bettencourt, nato a Madeira, che compose poesie meravigliose seguite dal silenzio, il giornale “Repùblica” scrisse alla sua morte.
“Edmundo de Bettencourt è deceduto ieri a bassa voce. Da trentatré anni, il poeta aveva scelto di vivere senza nessun canto, come se avesse adattato alla propria vita una sordina.”

Perché leggere Bartleby e compagnia?

E qui mi fermo. ma tanto c’è da scoprire, tanto spero di avervi invogliati alla lettura.
Dimenticavo: è pericoloso.
Beh, provate a pensare di essere uno scrittore, e a quello che può capitarvi dopo aver letto questo libro.

La sindrome di Bartleby è altamente contagiosa.

 

Link d’acquisto

https://www.ibs.it/bartleby-compagnia-libro-enrique-vila-matas/e/9788807016127

Sinossi

Un impiegato metà Pessoa e metà Kafka scrive un diario fatto di note a piè di pagina a commento di un testo fantasma.

Con piglio pacato e una raffinata stringatezza stilistica va a caccia di “bartleby”, esseri che ospitano dentro di sé una profonda negazione del mondo e prendono il nome del famoso scrivano di Melville che preferiva non fare e non parlare.

I bartleby finiscono per non scrivere nulla pur avendo tutto il talento necessario, oppure, se esordiscono, rinunciano presto alla scrittura. Un libro ironico ma anche incantato dal sortilegio della parola.
Titolo: Bartleby e compagnia
Autore: Enrique Vila-Matas
Edizione: Feltrinelli, 2002