Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson

Voce al Sogno
Recensione di Tiziana Tixi

 

abbiamo vissuto castello

 

Abbiamo sempre vissuto nel castello è un romanzo di Shirley Jackson scritto nel 1962, edito da Adelphi nel 2009. È l’ultima opera dell’autrice, scomparsa nel 1965.

Di cosa parla Abbiamo sempre vissuto nel castello?

Mary Katherine Blackwood, diciotto anni; Merricat, un lupo mannaro mancato. E pensare che ha il medio e l’anulare della stessa lunghezza; ma si è dovuta accontentare della natura umana. Cosa odia? Lavarsi; e i cani e i rumori. Cosa adora? Sua sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone; e l’Amanita phalloides.

 

Nella grande casa sono rimaste da sole; gli altri membri della famiglia sono tutti morti.

Merricat è la voce narrante di Abbiamo sempre vissuto nel castello; un racconto costruito sull’analessi.

Il ricordo di un tempo quasi senza tempo; di una vita assaporata morso dopo morso. Quei giorni hanno il sapore delle torte cucinate da Constance; il tepore della cucina; il profumo delle erbe aromatiche in giardino.
Quei giorni seguono tutti lo stesso corso; ché rivoluzioni e cambiamenti non sono mai piaciuti ai Blackwood. Constance non esce mai; è Merricat a scendere in paese, il martedì e il venerdì.

E ogni martedì e venerdì deve passare attraverso un roveto; scivolare nella tana di serpenti sibilanti e difendersi dal loro veleno. Uomini e donne; perfino i bambini. Volti beffardi, lingue affilate; allusioni pungenti le piovono addosso come sassi.

È una Blackwood;
quel nome, già tinto di nero, sa di nera leggenda. È il pasto dei corvi che le gracchiano contro una macabra ironia. Pensa ad altro, Merricat; non ascoltare.

Ora sei a casa, nella tua casa sulla luna. Che bella la casa sulla luna! Ci hai messo il caminetto, fuori c’è il giardino; e poi ci sono tanti colori, sulla luna. Sì, è proprio un bel posto.

Con la testa oltre le nuvole e i piedi in terra, Merricat resiste; svolge le commissioni e torna a casa. Quella vera; che è alla fine del
bosco che è alla fine del sentiero che è oltre il grande masso nero. Il cancello è come la terraferma per il naufrago; il limen che segna il regno dei Blackwood: lì le sorelle sono invulnerabili. A ogni ritorno la accoglie il sorriso di Constance; solo allora è davvero al sicuro.

Insieme, le ragazze salgono le scale; insieme raggiungono il cuore della casa. Constance è la cuoca; un’ottima cuoca. Dalle sue mani prendono forma succulenti manicaretti. Merricat non ha il permesso di aiutarla né di cucinare; e nemmeno di raccogliere funghi.

In un angolo della cucina c’è una grande scrivania; zio Julian ha intrapreso la fatica della penna. Sempre in lite con le sue carte, egli sta scrivendo un libro. Ma non un libro qualsiasi; un memoriale. Rivendica il diritto di gridare la sua verità; e quella di Constance e di Merricat.

Nella casa aleggia il ricordo di un giorno che fu l’ultimo; di una sera che fu l’ultima. Di una cena che fu l’ultima della famiglia al completo.

Sei anni prima, i Blackwood erano riuniti intorno alla tavola; Merricat no. Era stata messa in punizione; a letto senza cena.
Fu la sua fortuna; Constance e lo zio altrettanto fortunati. Tutti gli altri incontrarono la morte; la causa dei decessi? Arsenico nello zucchero. Ci fu un processo; seguì una assoluzione.

Ma il paese ha buona memoria; quelle morti sospette hanno macchiato il nome dei Blackwood.
Ecco l’origine della loro tetra fama; ecco la necessità della versione di Julian. Quella cena è rimasta cristallizzata nei ricordi dei tre; davanti ai loro occhi, ognuno è ancora al proprio posto a tavola, le pietanze fumanti, le parole nell’aria.

Una scena che si ripete ogni sera; rappresentazione di un lugubre banchetto eucaristico. Sei anni; ogni giorno una copia del precedente e del successivo. Un sabato mattina la superficie levigata dell’esistenza delle sorelle si incrina; un presagio.

Solo Merricat fiuta un imminente cambiamento? O forse anche Constance lo avverte? Non volge più lo sguardo a terra, dove crescono le sue piante. Lo solleva verso la recinzione, lungo il viale; magari si chiede cosa proverebbe oltre il cancello.
L’erbaccia va estirpata; il cambiamento va combattuto. Come difendersi dall’agguato di un nemico invisibile ma reale? Occorre esorcizzarlo, come uno spettro malvagio; Merricat pensa.

Ha un’idea: deve trovare tre parole magiche. Il cambiamento avverrà solo se saranno pronunciate ad alta voce. Sembra facile; ma nella sua mente lottano due impulsi uguali e contrari.

Quelle tre parole sigillano uno scrigno; non vanno dimenticate. Ma tenerle in testa è pericoloso; possono attirare lo spettro. E allora che fare?

Merricat si sforza di ignorarle; ma lo spettro incombe dentro casa, in giardino. È ovunque; e si fa beffe di lei. La ragazza coglie un
pessimo auspicio; l’irreparabile sta accadendo. Forse è già accaduto. Il presidio è crollato; il cerchio magico intorno alle sorelle infranto. Un libro inchiodato a un albero; un gesto apotropaico che le ha sempre protette.

Quell’amuleto giace terra, privo di potere difensivo; carico di una forza malvagia. Va sostituito in fretta. Ma ormai la breccia è aperta; lo spettro vi si è già insinuato. Si è presentato sotto una pioggia battente; ha bussato alla porta, chiamato, insistito. È stato accolto; il cambiamento è avvenuto.

Il cugino Charles è l’elemento perturbante; porta il caos nel kosmos della casa e della loro vita. L’incantesimo delle tre parole magiche ha fallito. Merricat deve darsi da fare se vuole cacciare lo spettro; tale è Charles ai suoi occhi.

La mente della ragazza attua una rimozione del cugino. Ne ignora la presenza; non è mai arrivato, non c’è nessun ospite. Basta appendere un nuovo amuleto all’albero; la casa sarà di nuovo al sicuro, cinta da un muro invalicabile.

I rituali di Merricat falliscono miseramente; la sua eccentricità le attira l’astio di Charles. La cugina è solo una bambina capricciosa; bisogna prendere provvedimenti. L’uomo non intende andarsene; è deciso a restare, forse a lungo. Constance ha bisogno di aiuto; la cura della casa e della famiglia è un peso troppo gravoso per le sue fragili spalle.

È untuoso, Charles; sa usare parole suadenti e modi affabili. Perché ha un piano da portare a termine; e Constance è l’anello debole su cui agire. Dietro il faccione pacioso si cela un astuto serpente; egli apre un varco nel rapporto tra le cugine, vi si intrufola. Merricat rischia di perdere l’adorata sorella; la sapiente strategia manipolatoria dà i suoi frutti.

Charles si muove a suon di argomentazioni ragionevoli; conquista la fiducia di Connie. Ma cosa vede Merricat dietro la sollecitudine del cugino? Vede invadenza, arroganza; avidità. Gli oppone una azione di logoramento; una guerriglia fatta di sabotaggi e dispetti.

Ancora una volta intorno al desco si decidono le sorti della famiglia; il punto di svolta è una cena. È il momento di massimo squilibrio; da quella sera si stabilisce il nuovo, definitivo equilibrio. Tutto cambia; niente cambia.

 

Perché leggere Abbiamo sempre vissuto nel castello?

 

Il castello c’è. Le principesse ci sono. E c’è anche un cavaliere che tenta di strapparne una all’incantesimo. Ma questo cavaliere è tutt’altro che senza macchia e senza paura; il suo fine non è nobile.

E le principesse non sono creature indifese.

Abbiamo sempre vissuto nel castello è quasi una fiaba macabra; tinte gotiche e — perché no? — tratti scapigliati. Quello che suscita non è paura; è una inquietudine sottile che striscia sotto la pelle.

Dietro la normalità del quotidiano si celano le crepe dell’incubo; il malessere nasce da uno straniamento.

Qual è la nota disturbante? Lo scarto tra la percezione delle protagoniste e quella del lettore. Esso segue le linee ordine-disordine, felicità-tossicità. Felicità è ciò che cercano Constance e Merricat; ognuna la trova solo nell’altra. Ma perché la felicità sia piena
e durevole, il loro rapporto deve restare esclusivo; il loro mondo immobile.

Tutto deve rientrare entro il margine della loro ordinaria quotidianità; ciò che è extra-ordinario va eliminato. Un granello di polvere, una ragnatela; così anche l’Estraneo va cacciato.

Nessun elemento soprannaturale, nessuna traccia di sangue; non c’è bisogno. Il Male si annida nella psiche; assume la forma di un disturbo ossessivo compulsivo. Il pensiero magico, la ritualità; la cura maniacale dell’igiene e dell’ordine.

Troviamo le atmosfere che saranno di Stephen King; egli si dichiara ammiratore di Shirley Jackson. L’autrice ripropone un tema a lei caro; il topos della casa. Ne l’incubo di Hill House essa è una specie di malefico organismo vivente; una struttura mutevole e ingannevole, dotata di strani poteri.

Abbiamo sempre vissuto nel castello declina la casa come culla; luogo di una eterna infanzia. Calda, rassicurante come l’utero materno; luogo di una beatitudine insana goduta in una insana simbiosi.

E vissero felici e contente; mentre il mondo era là fuori.

“Oh, Constance […] siamo così felici!”

 

Link d’acquisto

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Sinossi

“A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce”: con questa dedica si apre L’incendiaria di Stephen King. È infatti con toni sommessi e deliziosamente sardonici che la diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa avita dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido.

Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo.

E quando in tanta armonia irrompe l’Estraneo (nella persona del cugino Charles), si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia. Ma il malessere che ci invade via via, disorientandoci, ricorda molto da vicino i “brividi silenziosi e cumulativi” che – per usare le parole di un’ammiratrice, Dorothy Parker – abbiamo provato leggendo La lotteria.

Perché anche in queste pagine Shirley Jackson si dimostra somma maestra del Male – un Male tanto più allarmante in quanto non circoscritto ai cattivi, ma come sotteso alla vita stessa, e riscattato solo da piccoli miracoli di follia.

 

Titolo: Abbiamo sempre vissuto nel castello
Autore: Shirley Jackson
Edizione: Adelphi, 2009