Intervista a Eugenia Nicolosi contro il patriarcato
Voce alle Donne
a cura di Emma Fenu
Eugenia Nicolosi è una giornalista, scrittrice , femminista e sostenitrice del movimento Lgbtqia+; è attiva con diverse associazioni e organizzazioni che si battono per la difesa e promozione dei idiritti; è presente nei social media; crede nella comunicazione costruttiva e nel confronto arricchente.
Collabora con Giulia – Giornaliste unite libere e autonome, Gaynet, Non una di meno Di Palermo, Arcigay RDT – Rete donne transfemminista e con l’Ordine dei Giornalisti.
Dopo la lettura della recensione del suo ultimo libro, Patriarcato for Dummies, a cura della nostra collaboratrice Gianna Ferro, ho subito sentito il desiderio di scriverle per intervistarla, perchè i concetti da lei esposti per molti aspetti coincidono con quelli che animano Cultura al Femminile.
Nello spazio di una manciata di minuti, le ho chiesto l’amicizia su Facebook, ho formulato le domande su Messenger, ed eccomi qui, con emozione e orgoglio, a riportarvi l’esito di una breve dissertazione e analisi non solo interessante e vitale come stimolo al successivo personale approfondimento, ma immediata.
Eugenia Nicolosi ci crede, trova il tempo, si concede all’ascolto, risponde e interagisce.
Eugenia Nicolosi non milita per una causa, vive la causa.
Intervista a Eugenia Nicolosi, autrice di Patriarcato for Dummies
Grazie Eugenia e benvenuta nel nostro salotto di Cultura al Femminile. Immaginalo come vuoi: minimal chic o ricco di tende e broccati, non importa: importa essere occhi negli occhi a far danzare le parole nello spazio fra noi, fra mani, tazzine di caffè o pile di libri vintage.
In cosa oggi siamo vittime anche inconsapevoli del patriarcato?
Grazie Emma, sono felice di essere qui.
Siamo vittime del patriarcato In tutto.
Da quando ci vestiamo per uscire a quando immaginiamo il nostro futuro siamo impregnate di un cultura che ci suggerisce di indossare qualcosa o di non indossarla, di sognare qualcosa e di sentirci strane o in colpa perché non la sogniamo.
Viviamo lo stigma della puttana, il mito della verginità, il gender gap e il gender pay gap, fatichiamo a capire se vogliamo figli oppure no e perfino se siamo lesbiche oppure no.
Ci sentiamo in colpa se qualcuno ci pizzica il sedere contro la nostra volontà.
Le scelte realmente libere che fa una donna le fa non appena si libera dai legacci del patriarcato che le stringono i polsi, il cuore e il cervello da quando era piccola e la vestivano da principessa raccontandole di quanto sarebbe stata felice con il principe azzurro, un principe che di certo a un certo punto sarebbe arrivato.
Soprattutto il principe arriva se adotti e mantieni quelle norme comportamentali che si addicono al “femminile”, un concetto totalmente vago, oltre che inventato, che istituzionalizza una serie differente di comportamenti rispetto a quelli previsti per il “maschile”.
Se dici le parolacce, se non sei gentile, sorridente e dolce, rassicurante, materna e remissiva il principe non arriva. E in un sistema come questo una donna senza principe deve ancora spiegare che è felice lo stesso.
Come intendi il femminismo attivo nella cooperazione con gli uomini?
Il femminismo è una filosofia e la può praticare chiunque indipendentemente dal sesso biologico e dall’identità.
In questo senso gli uomini etero cis che abbracciano davvero il femminismo sono consapevoli di portarsi addosso un privilegio ma anche di essere schiacciati dal patriarcato tanto quanto le altre identità, a partire dalle donne.
Loro possono pure svincolarsi, ma come?
Dal momento che un uomo vede ancora troppo spesso soltanto in un altro uomo l’autorevolezza per un dialogo tra pari, proprio un uomo può spiegare agli altri uomini perché occorre scardinare il sistema patriarcale perché converrebbe anche a loro.
La differenza è che le oppressioni subite dagli uomini etero cis sono molto più sottili e, in un sistema che li privilegia dando loro potere, aprendo loro porte a noi chiuse, deresponsabilizzandoli rispetto a ruoli domestici, di cura e al lavoro riproduttivo e che li giustifica perfino quando sono stupratori e assassini è difficile riconoscere di essere oppressi.
Ma lo sono, a partire dal fatto che hanno imparato a farsi star bene l’idea che le donne da secoli li trattano come se fossero degli incapaci a cui dare corda solo per non farli sentire intimiditi.
“Non sa cucinare? Ma è un maschio che pretendi” è una frase violentissima che non si recupera dicendo che i migliori chef sono uomini, fossi in loro andrei alla radice.
Ma evidentemente a loro non interessa, anche perché non sanno che vuol dire camminare per strada e avere paura. Noi si.
In che modo i media manipolano attraverso parole inadeguate o addirittura pericolose?
I media sono fatti da persone e le persone sono state cresciute come tutte e tutti noi qui e adesso.
La gente è passata alle piattaforme di streaming perché non si riconosce più nei messaggi che veicolano molti dei programmi televisivi mainstream che sono eteronormativi, patriarcali e violenti, mancano di rappresentazione e di spessore rispetto alle identità delle persone, appiattiscono le narrazioni uomo/ donna su ruoli stereotipati, normalizzano le diseguaglianze di genere facendole passare per romanticismo e riducono a macchiette le persone nere, lgbt+ o con disabilità.
Gli autori e le autrici tv sono cresciuti e cresciute come noi, in un posto in cui se il compagno di tirava le trecce era perché “ti voleva bene”, ovvero in cui la cultura della violenza mascshile sulle donne non solo è normale ma è anche interpretabile e giustificabile.
Nel caso dei giornali è diverso, le pagine di cronaca che mettono al centro casi di stupro o femminicidio spesso si trovano inciampi, slut shaming o victim blaming e non so quanto siano consapevoli di farlo e quanto non siano solo frutto della cultura che colpevolizza le donne che vengono aggredite sessualmente perché erano ubriache o perché fanno le sex workers.
Quando è stata uccisa Elisa Pomarelli ho visto pagine di giornale chiamare il suo assassino “il gigante buono che l’amava”. E meno male, pensa se fosse stato cattivo e l’avesse odiata.
Ci sono delle associazioni e dei collettivi che in collaborazione con l’ordine dei giornalisti tengono corsi di aggiornamento per far capire ai colleghi e alle colleghe che alcuni termini e alcune scorciatoie mentali sono tossiche e diseducative, oltre a non essere più aderenti a un sentire comune.
Sono corsi importanti a cui dovrebbero partecipare tutte le testate, così magari un giorno non occorrerà più
Cosa ne pensi dell’educazione sentimentale nelle scuole?
L’educazione sessuale, sentimentale, di genere e alle differenze è fondamentale.
In Italia un tempo si faceva poi evidentemente a una certa politica cattolica non stava bene allora siamo tornati a non parlare di sesso e di consenso ai bambini e alle bambine.
E non vuol dire che lo faccia qualcun altro: le famiglie si vergognano o sono bigotte, escludendo che i figli possano fare sesso o sperimentare il piacere del corpo ma accade.
E dal momento che i bambini e le bambine imparano che di sesso non si parla, a 10 e 11 anni già vanno a cercare le risposte sui siti porno o dal fratello grande del compagno di banco, incamerando fesserie e falsi miti e senza avere idea di cosa può piacere o non piacere a loro in prima persona e alle persone che un giorno vorranno approcciare.
Gravidanze precoci, malattie e infezioni sessualmente trasmissibili e ovviamente micro aggressioni di natura sessuale sono purtroppo il risultato orrendo di questo silenzio ipocrita.
Ovviamente senza contare che i bambini e le bambine che sanno cosa piace loro e cosa no, e i preadolescenti che sanno cosa è sesso e cosa no, possono identificare e quindi denunciare più facilmente eventuali molestie subite da parte di adulti, familiari o conoscenti che siano. Ma tant’è.
Infine, la domanda di rito: esiste una cultura al femminile?
La cultura “al femminile” è quella in cui siamo, che prevedere ruoli e comportamenti diversi a seconda del genere e che prevede due soli generi: maschile e femminile.
Dovrebbe esistere invece una cultura femminista, che non è sinonimo di “matriarcale” ma che invece promuove la parità.