“Il ritmo ammericano”

di Marina Fichera

 

La puntina precipitava sul vinile, qualche secondo di fruscii e poi… poi iniziava la magia. L’orchestra di Glenn Miller attaccava un pezzo dal ritmo travolgente. Ritmo ammericano, mica quelle robe noiose tipo Nilla Pizzi. Con quel ritmo, se ti lasciavi trascinare, ti ci potevi contorcere come un indemoniato evitando, però, l’esorcista.

Antonio aveva iniziato ad ascoltare quel ritmo ogni pomeriggio, prima dalla finestra e poi, quando aveva trovato il coraggio di suonare al campanello della sua vicina di casa, nel piccolo soggiorno ombreggiato di Maria.

Maria di giorno era sempre a casa, al contrario della madre di Antonio – che gli aveva proibito di avere contatti con la vicina – che, invece, era sempre al lavoro. Se non fosse stato per quel ritmo, quello ammericano, Antonio avrebbe ubbidito a sua madre, ma le gambe si erano mosse da sole, il dito indice aveva premuto il pulsante del campanello che aveva trillato anche lui a ritmo, le spalle avevano avuto un movimento sincopato. Si era detto che non era colpa sua, era come indemoniato. E gli piaceva un sacco.

Ogni giorno che passava aveva imparato a conoscere le grandi orchestre ammericane, il suono dei sassofoni e dei clarinetti, a distinguere le note zampettanti dello swing e quelle languide del blues. Ad amare quella musica da ballo, o della perdizione, come diceva sua madre.

Maria gli aveva raccontato che alla fine della guerra molti suoi clienti ammericani l’avevano pagata con quei dischi. Lui non aveva capito cosa avesse venduto loro, ma non gliene importava un accidente. Era grato per quella musica, per quel ritmo, di cui ormai non poteva fare più a meno.

Un giorno però sua madre si fece male a lavoro e rientrò nel pomeriggio. Quando Antonio aprì la porta di casa, felice e sudato, la madre non volle credere che fosse andato dalla Maria solo per ascoltare i dischi di musica ammericana. Non lo pestò a sangue solo perchè lei stessa era pesta, ma decise di cambiare casa, il più lontano possibile da quella donna perduta e dalla sua musica peccaminosa. Se fosse stato possibile avrebbe scelto un luogo dove certi tipi di musica erano proibiti, ma non fu possibile.

Il giorno in cui traslocarono Maria gli regalò – di nascosto dalla madre – il disco di Glenn Miller e la sua orchestra. Ogni volta che estraeva dalla copertina quel 33 giri, Antonio lo puliva con la stessa cura con cui sua madre avrebbe pulito una reliqua sacra.

Mise il disco sul piatto del giradischi, la puntina precipitò sul vinile, qualche secondo di fruscio e poi… poi uno dei più affermati jazzisti italiani, ormai anziano, iniziò a ballare, contorcendosi felice, come se avesse avuto il ballo di San Vito, come se fosse stato, ancora una volta, a casa di Maria. Ci pensava sempre più spesso, quel ritmo ammericano era stato tutta la sua vita e in fondo doveva il suo successo a una prostituta che, dopo la guerra, si era accontentata di farsi pagare in dischi. La vita: che strana sequenza di note e pause, l’importante però che il ritmo sia quello giusto!

 

 

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