Il guardiano del vento di Gianluca Piattelli

Luca aveva visto settanta primavere e superato indenne altrettanti inverni. Sua moglie era volata in cielo troppo presto, i figli non erano mai nati e i parenti avevano assunto la considerevole nomea di “serpenti da evitare”.

Ma Luca non era solo: tutte le mattine, alle sette, veniva svegliato dalla lingua patinata del suo amico peloso. Si chiamava Pippo, il suo manto aveva il colore della cioccolata calda e la sua fedeltà brillava come la luna piena anche nelle notti più nere. Luca era pensionato ma, essendo un tipo atletico e giovanile, quando l’azienda per cui aveva lavorato una vita intera, e che gestiva il parco eolico dell’isola Gioiosa, gli aveva offerto un ruolo da supervisore, aveva accettato. Lo aveva fatto per non soccombere al tedio della solitudine e per passare il suo tempo in compagnia di quei giganti di acciaio, dipinti di bianco, che adorava in maniera assurda e inspiegabile.

Era divenuto l’unico guardiano di quel fazzoletto di terra, arbusti, ginepri, prati verdi e dolci colline… disabitato. I pastori che lo frequentavano se n’erano andati da tempo, portandosi via pecore, capre, armenti, le loro voci concitate, il clamore chiassoso e i suoni astratti della civiltà. Gli unici abitanti dell’isola si contavano ora sulle dita delle mani: essi non sapevano parlare, ma cantavano da Dio. Si trattava di sette turbine altissime, giganti con il corpo in acciaio e le braccia in resina di alluminio, lustri come perle, dignitosi come nivei gendarmi, immacolati come cascate di ghiaccio, candidi come la panna del latte appena munto. Le ventuno pale eoliche del parco sembravano danzatrici impavide, obbedivano liete alla legge invisibile del vento che, se al suolo pettinava l’erba come fosse una capigliatura verdastra, a quelle altezze vertiginose sapeva inebriarle con la sua forza dirompente, fino a farle girare meravigliate e complici.

Luca attraccava al molo dell’isola e, con Pippo alle calcagna, faceva il giro delle sette turbine allo scopo di controllare che fosse tutto a posto. Lasciava a terra il suo amico peloso, in modo che corresse felice per i prati ad annusare le tracce di animali selvatici, quindi saliva su ciascuna di esse usando gli ascensori ubicati al loro interno, installati di recente. Raggiunta la gondola in cima alla torre, dava un’occhiata al generatore elettrico, sistemava il timone, controllava il moltiplicatore di giri, oliava qua e là, stringeva bulloni, spargeva il grasso sugli ingranaggi e si occupava di tutto ciò che quegli aggeggi di alta tecnologia richiedevano.

Faceva di tutto, tranne affacciarsi sul vuoto, poiché soffriva di acrofobia: un malessere nascosto, muto, una creatura invisibile ma perennemente in agguato, un essere strisciante e pericoloso. Aveva una paura folle dell’altezza e quando lavorava lassù, a centocinquanta metri dal suolo, se ne stava rintanato nel nido sicuro dei dispositivi meccanici. Se per qualche raro motivo gli capitava di dover visionare la gondola all’aperto, chiudeva gli occhi e, tremando come una fragile foglia autunnale, cercava di portare a termine il suo compito nel più breve tempo possibile.

Svolti i controlli alla prima turbina, passava alle altre sei. Saliva sulla seconda, lavorava, scendeva, camminava con Pippo, saliva sulla terza e così via fino a sera inoltrata quando, esausto e soddisfatto, ritornava alla barca e navigava fino a casa.

Nelle sue notti solitarie, Luca sognava di diventare invisibile e, sotto forma di vento, amare di nuovo.

 

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