Sbornie sacre, sbornie profane – di Claudio Ferlan

recensione di Emma Fenu

sbornie

 

Sbornie sacre, sbornie profane è un saggio di Claudio Ferlan, edito da Il Mulino nel 2018, che si concentra sul scontro culturale fra autoctoni e colonizzatori all’arrivo degli europei nelle Americhe: uno scontro che nell’uso dell’alcol trova una interessante chiave di lettura storica e antropologica.

Fin dai tempi di Noè, ossia del libro della Genesi, si parla di ubriachezza, ossia di uno stato di rilascio dei freni inibitori dovuto all’abuso di sostanze derivate dall’alcol.

Cosa accadde al patriarca Noè, dopo essere scampato al diluvio universale? Cominciò a scegliere della terra su cui coltivare una vigna e produrre vino: un giorno i figli lo trovarono ubriaco e nudo  e i figli lo videro e lo coprirono, causando l’ira e la maledizione del vecchio rinsavito.

Anche gli Indios del Messico hanno una storia analoga: Quetzalcòalt era un re sacerdote che, ammalatosi, fu vittima di un raggiro di un dio dei nemici che gli offrì, come medicina, il pulque, bevanda alcolica derivata dalla fermentazione dell’agave. Il re raggiunse lo stato di ebbrezza, perse la castità e per l’onta subita abdicò.

Entrambi i personaggi subirono gli effetti dell’alcol inconsapevolmente. Diversa è la storia di Geronimo, l’ultimo apache che resistette agli europei.

Geronimo si ubriacò, salì a cavallo e morì per una polmite degenerata; a causa della sbornia era caduto inerme nel gelo della notte.

Per la cultura europea, è una virtu’ “tenere l’alcol”, ossia bisogna farne uso moderato per non rendersi ridicoli e commettere reati di lussuria o violenza. Del resto, il consumo del vino nell’eucarestia ha connotati mistici, nella reiterazione di Cristo che offre il suo sangue per l’umanità.

Con l’avvento della Riforma, Lutero, biasimando i peccati di gola del clero romano, distingueva, in merito al consumo di alcool, fra peccato e peccatuccio, ossia l’antica distinzione fra bere e bere in modo smisurato.

Ma negli imperi delle Americhe il concetto di misura non era culturalmente accolto.

Presso gli Atzechi e gli Inca, infatti, si usavano rispettivamente il pulque, di cui ho già accennato, e la chica, bevanda prodotta dalla fermentazione del mais, le sbornie rientravano in un preciso rituale durante occasioni du festeggiamenti e commemorazioni, in cui perfino le donne, seppur in disparte, si ubriacavano pesantemente.

Nei giorni comuni, invece, non si consumava alcol.

Ben sappiamo che le sbornie non erano solo un vizio indigeno, ma i colinizzatori le assimilarono a riti stregoneschi, incesti e sacrifici umani, e soprattutto erano convint di avere un grado di civiltà superiore che li rendesse in grado di dominarsi.

Gli indigeni del Nord America, invece, non consumavano alcolici e il loro progressivo accostarsi all’acquavite olandese non fu privo di conseguenze: forse iniziarono a bere per dimenticare i disagi, forse per integrarsi con il popolo conquistatore, forse per ricordare quando, negli anni precedenti alla conquista, l’alcol aveva un valore spirituale e non era oggetto di mercato.

L’arma più forte per domare un popolo si era rivelata l’acquavite.

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Sinossi

Stivate di barili colmi di bevande alcoliche e di uomini pronti a svuotarli: le navi che dai porti del Vecchio Continente salparono alla volta delle Americhe portarono in quei luoghi un nuovo sapere alcolico.

Inclini al bere, educati alla mistica del vino, frequentatori di taverne, i colonizzatori incontrarono dall’altra parte del mondo culture indigene tra loro molto diverse, che avevano stabilito nei secoli rapporti complessi con una vasta serie di prodotti fermentati, rapporti in cui il rituale dell’ubriachezza poteva a volte assumere un carattere di sacralità.

Dall’impatto sorsero nuovi modi di bere all’eccesso: sbornie epocali, malsane, curative, profetiche, battagliere, mortali, punibili, estatiche, comuni, solitarie, artistiche, visionarie, sacre, profane.

Titolo: Sbornie sacre, sbornie profane
Autore: Claudio Ferlan
Edizione: Il Mulino, 2018