Recensione di Gianna Di Carlo
Eugenio Montale,”Ossi di seppia”, 1925
“Ossi di Seppia”, la prima raccolta poetica di Eugenio Montale, costituisce uno dei primi e più alti esempi della cosiddetta “poesia ermetica“, una corrente letteraria dal carattere oscuro, ricca di simboli ed analogie che si riallaccia, direttamente, alle esperienze del “Simbolismo” francese.
Un fenomeno, quindi, non solo italiano ma anche europeo sviluppatosi in un difficile e tormentato contesto storico-esistenziale.Al senso di sofferenza e di solitudine dell’uomo, già presenti nella sensibilità europea del primo ‘900 e frutto di quella profonda inquietudine che va sotto il nome di “Decadentismo“, si erano, nel frattempo, inseriti, sia la soffocante atmosfera del regime che la catastrofe del secondo conflitto mondiale.
I canti degli “ermetici”, quindi, si caricano di una sofferenza e di un tormento ancora più profondi e la sensazione di angoscia porta alla ricerca di nuove interpretazioni della realtà.
Come per i simbolisti francesi (S. Mallarmé, A. Rimbaud, P. Verlaine), anche per gli ermetici l’arte ha il compito di rilevare dimensioni sconosciute dell’esistere attraverso le nuove tecniche dell’analogia e del simbolo. Così gli “oggetti” di Montale si caricano di un loro messaggio segreto che sembra farci finalmente intravvedere il senso delle cose (“il varco è qui?”). Ed ecco l’intrinseco pessimismo montaliano che, inutilmente, cerca un varco, una via di fuga, in un’evanescente quanto improbabile speranza.
Diversamente dal Simbolismo francese, tuttavia, il poeta non persegue un ideale di “poesia pura”, non ricerca la musicalità; la sua poetica è aspra, spoglia, secca e dissonante costituendo una riflessione, ad ampio respiro, sulla vita, sulla storia, sul destino dell’uomo.
La Raccolta poetica “Ossi di Seppia” esprime, già di per sé, una condizione di vita. Il titolo stesso è denso di significato. Gli ossi di seppia sono i residui calcarei di quei molluschi che il mare deposita sulla riva. Alludono, quindi, ad una condizione vitale impoverita, prosciugata, ridotta all’osso e quasi all’inconsistenza. La poetica del Montale, proprio per tale impoverimento, non è più capace di attingere al sublime, al canto spiegato; deve, bensì, ripiegare sui detriti che la vita lascia dietro di sé.
Il paesaggio che si profila nei versi del Montale è quello ligure, familiare al poeta. Un paesaggio arido, brullo, disseccato dall’aria salmastra (il “mio terreno bruciato dal salino”) e da un sole implacabile a simboleggiare una forza che prosciuga ed inaridisce qualsiasi forma di vita.
La cupa angoscia esistenziale, sentita dal poeta, che imprigiona l’animo umano, senza possibilità di scampo, si proietta in un altro oggetto carico di significato: il muro “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Tale allegorico muro è impossibile da valicare. L’uomo non è in grado di passare “al di là” per attingere ad una verità che dia un senso all’esistenza.
Simbolo, quindi, è il mare, simbolo è l’inaccessibile muraglia, simbolo è il paesaggio ligure. Il “male di vivere“, connesso con l’oscura precarietà del nostro esistere, è, per Eugenio Montale, presenza costante che si offre, quotidianamente, al nostro sguardo negli aspetti più umili e consueti: è “il rivo strozzato che gorgoglia”, è “l’incartocciarsi della foglia/riarsa…il cavallo stramazzato” (“Spesso il male di vivere ho incontrato“).
La poesia, dunque, non è più capace di indicare la strada per uscire da un tormento esistenziale; può solamente descrivere la condizione del “male di vivere”
Ed è proprio per quell’ansia inesauribile della verità, per quella presa di coscienza dello scacco umano di fronte ad una realtà incomprensibile, per quei molteplici interrogativi esistenziali, che amo, particolarmente, la poetica del Montale. Una poetica che testimonia ed interpreta il nostro tempo e che ha affascinato generazioni di lettori.
Amo il poeta ligure per i suoi versi scabri ed essenziali, per l’asciutto rigore della sua desolazione, scevra da sentimentalismi e compiacimenti, per il costante controllo dell’intelletto col quale domina i moti più strazianti dell’anima, la disperazione dell’assurdo, la sensazione di angoscia, la coscienza di un destino di morte che ciascuno di noi si porta dentro.
Eugenio Montale, con un linguaggio fatto spesso di termini “marinareschi” e gergali mescolati, con noncuranza, ad altri preziosi e dotti è, a parer mio, un poeta che chiede continue e successive riletture poiché, ogni volta, dalla pregnanza della sua meditazione e della sua espressività, rivela una sfaccettatura della sua anima che è un po’ anche la nostra anima: tormentati protagonisti del nostro tempo.
Spesso il male di vivere ho incontrato
(da: “Ossi di Seppia”)
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza;
era la statua della sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Eugenio Montale
Amo visceralmente Montale
bellissimo… 🙂