“L’eredità di Eszter” di Sandor Marai

Recensione di Caterina Stile

L'eredità di Eszter

“Gli amori infelici non finiscono mai” e quello tra Eszter e Lajos è un amore infelice. Un amore che fa il giro del mondo e delle persone, che toglie senza dare anche quando si giunge alla resa dei conti.

E Eszter questo lo sa. Eszer che ha vissuto per vent’anni in povertà con accanto solo la dolce Nunu, che ha rifiutato due proposte di matrimonio dopo l’abbandono di Lajos, è ora pronta ad affrontarlo per l’ultima volta perché “esiste una specie di regola invisibile per cui ciò che si è iniziato un giorno prima o poi si deve portare a termine”.

È un telegramma ad annunciare l’arrivo di Lajos e a spingere Eszter alla riflessione ma anche a un pizzico di euforia e vanità pur consapevole che il motivo di quel ritorno non è un ripensamento, né una dichiarazione d’amore con evidente ritardo.

Negli anni trascorsi da sola ad attendere (e sperare) il ritorno dell’unico amore della sua vita, Eszter comprende che non avrebbe mai potuto vivere con lui perché “la sua personalità e il suo modo di agire erano privi di quel collante in mancanza del quale non si possono creare dei vincoli tra gli esseri umani”.

Eppure, quando Lajos mette piede nella vecchia casa, tutti subiscono il suo fascino.

La sua eloquenza, quel deciso savoir faire ammaliano perfino chi, dopo tanti anni, non dimentica i suoi debiti e le sue cambiali.

Anche Eszter si lascia avvolgere da quella scia di passato che tenta di dissolvere le ombre ricamate attorno alla figura di Lajos, ma più di tutto Eszter sembra rassegnarsi al compimento di un destino rimasto in sospeso per vent’anni. Lajos è tornato per riprendere ciò che è rimasto delle sue scorribande.

Con tono solenne, davanti al suo volto stanco, Lajos afferma di voler mettere a posto ogni cosa. Sfiora il passato senza giustificarsi, accarezza un futuro già delineato e Eszter ascolta con rassegnata pazienza il saltimbanco delle sue emozioni.

Quando qualcuno riemerge dal passato per annunciare con voce commossa di voler mettere a posto ogni cosa, si può soltanto compiangerlo, o sorridere alle sue intenzioni; il tempo ha già messo a posto tutto, a modo suo, nell’unico modo possibile.

È per questo che Eszter non prova curiosità per quelle lettere d’amore che non le sono mai giunte, è per questo che non infierisce sul passato, è per questo che non si ribella alla proposta di Lajos.

Il tempo ha disposto tutto nell’unico modo possibile e a lei tocca solo acconsentire e chiudere il cerchio degli eventi.

Eszter veste i panni di una donna remissiva e succube, ma la sua anima è corazzata dalla consapevolezza che non ha senso forzare la vita come non ha senso deviare il corso di un fiume con una diga: prima o poi esso tornerà a scorrere dove la natura ha predisposto il suo cammino.

Solo una donna che non ha più niente da perdere giunge a una lettura trasparente della vita che le permette di guardare l’animo della gente senza i veli dell’ipocrisia.

Le sue lacrime erano autentiche lacrime, che però dentro di lui non scioglievano né l’amarezza dei ricordi né i morsi del dolore; Lajos si rallegrava o si disperava sempre con il massimo impegno, ma in realtà non sentiva mai nulla. In tutto questo c’era qualcosa di disumano.

Eszter non si ribella nemmeno dopo vent’anni ma non ha più paura delle sue emozioni né di manifestare il disappunto, unica traccia di un rancore estinto, nei confronti della scelta di Lajos:

Una donna si può gettare via come una scatola di fiammiferi perché uno ha un temperamento passionale, perché il suo carattere è fatto così, magari perché non riesce a legarsi a una donna sola oppure perché cerca di arrivare in alto e usa tutto e tutti come mezzi per raggiungere il suo scopo. Una mascalzonata che però ha qualcosa di umano. Ma gettare via qualcuno per semplice distrazione…Per un comportamento simile non esistono scusanti perché è disumano.

” Nulla arriva mai in tempo, la vita non ci dà mai qualcosa nel momento in cui siamo preparati a riceverlo”.

Un tema ricorrente nelle opere di Sandor Marai che trova il suo culmine nel capolavoro “Le braci”.

Due persone non possono incontrarsi neanche un giorno prima di quando saranno mature per il loro incontro…Mature, non secondo le loro inclinazioni o preferenze, bensì nell’intimo, secondo i dettami di una specie di legge astronomica inoppugnabile.

Il destino, lo sguardo di Dio o comunque lo si voglia chiamare è il fil rouge che lega indissolubilmente alcune persone e che non si spezza nemmeno sotto la furia del tempo e degli eventi. Si aggroviglia, forma nodi che sembrano inesplicabili, ma prima o poi arriva il momento della resa dei conti. Il momento in cui siamo davvero “maturi”, consapevoli delle scelte nostre e altrui e finalmente ogni tassello del passato trova la sua collocazione. Forzare la vita non ha senso, in alcuni casi rende solo più intricata la trama dei quel lungo filo.

Sandor Marai costruisce le sue storie su questo presupposto.

Storie lente ma ricche di pathos, eventi che si srotolano a poco a poco tra colpi di scena che lasciano senza fiato e riflessioni talmente scontate che ci si ritrova a pensare “non poteva essere altrimenti”.

La grandezza dello scrittore ungherese risiede proprio in questa sua capacità di stritolare le emozioni facendole scorrere attraverso tutti i filtri umani – le convenzioni sociali, l’arrivismo, l’egoismo, l’abbandono, l’assenza, l’apparenza – e dopo tutto questo, renderle libere, nude di fronte al lettore. Scontate. Talmente scontate da appartenere a chiunque.

E ora, permettetemi una nota personale. “Le braci” è un romanzo che mi ha toccato il cuore ma soprattutto è riuscito a farmi comprendere quante e quali distorsioni avvolgono le nostre apparenze. È capitato tra le mie mani in maniera casuale ma io credo che sia venuto a cercarmi nel momento in cui ero “matura” per comprenderlo e comprendermi. Di solito leggo più volte i libri che mi coinvolgono, ma a questo capolavoro non mi sono più avvicinata, come se avessi paura di ledere quell’alone di sacralità che per me si porta addosso. Alcuni libri fanno questo effetto, per fortuna. Sandor Marai rappresenta quel porto sicuro, quel calore che cerco quando, dopo tante letture diverse e spesso deludenti, ho voglia di chiudermi in me stessa e ritrovare quella purezza che a volte si appanna.

“Tu mi capisci, Nunu?” domandai

“Ti capisco, cara, certo che ti capisco” rispose e mi abbracciò.

[…] Più tardi Nunu chiuse le finestre e io mi addormentai.

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SINOSSI

«Nella vita esiste una specie di regola invisibile per cui ciò che si è iniziato un giorno prima o poi lo si deve portare a termine». Per vent’anni Eszter ha vissuto un’esistenza piana e senza scosse, nella quasi inconsapevole attesa del ritorno di Lajos, il solo uomo che abbia mai amato e grazie al quale ha conosciuto, per un breve periodo, «quel senso di allarme continuo» che è stato «l’unico vero significato della sua vita». E un giorno Lajos torna: Lajos il bugiardo, l’imbonitore, il falsificatore di cambiali, il mascalzone, Lajos che esercita sugli altri un fascino il cui effetto è paragonabile solo a quello di un sortilegio o di un terribile veleno, Lajos che l’ha ingannata sempre, che mente «come urla il vento, con una specie di forza primordiale, con allegria indomabile» – che aveva detto di amare una sola donna, lei, e poi aveva sposato sua sorella. Ed Eszter sa che Lajos torna per prendersi l’unica cosa di valore che ancora non si è portato via, e che lei non farà niente per impedirglielo. Sa anche che la storia non è finita, perché «gli amori infelici non finiscono mai». Che Márai sia un maestro della tensione narrativa spinta quasi all’insostenibile è cosa ben nota ai lettori delle “Braci”. Solo Márai può gareggiare con se stesso – e qui, ancora una volta, ci racconta una storia che stringe la nostra mente in una morsa, fino allo scoccare dell’ultima parola. “L’eredità di Eszter” fu pubblicato a Budapest nel 1939.

Titolo: L’eredità di Eszter
Autore: Sandor Marai
Edizione: Adelphi, 2013