“Favole della dittatura”  – di Leonardo Sciascia

Rubrica “Favola sarà lei!” a cura di Mirella Morelli

Favole della dittatura” è il titolo del primo libro pubblicato nel 1950 da Leonardo Sciascia con leditore Borsi di Roma.

Si tratta di un libro sconosciuto ai più, forse perché lo stesso autore non nutriva una grande opinione del testo: raggiunto ormai un notevole successo, considerava questa sua opera immatura e pertanto non ritenne opportuno inserirla, con gli altri suoi testi, nell’Opera Completa di cui Bompiani pubblicò il primo volume, quando Sciascia era ancora in vita, nel 1987.

Pertanto l’Opera Omnia di Sciascia viene fatta iniziare dal 1956.

Successivamente Sciascia ne autorizzò una riedizione francese insieme alla raccolta di poesie “La Sicilia, il suo cuore”, che insieme alle favole furono pubblicate da una piccola casa – la Pandora – oggi non più esistente. Questa edizione è oggi una rarità.

Ma torniamo a noi.

Il testo “La Sicilia, il suo cuore – Favole della dittatura” , di cui ovviamente prendiamo in esame la parte attinente le favole, consta di 28 favole di animali parlanti, tutte molto brevi – mai oltre la dozzina di righe.

Calibrate sul modello di Esopo, Fedro, La Fontaine per brevità e stile, il contenuto è tuttavia fortemente attuale e lo stesso titolo rimanda al regime fascista che l’Italia si è lasciato alle spalle soltanto da pochi anni.

L’attualità e l’intento del libro sono chiari già dalle due citazioni che precedono le favole.

La prima è tratta da “La fattoria degli animali” di George Orwell:

Non c’era da chiedersi ora che cosa fosse successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all’uomo, dall’uomo al maiale e ancora dal maiale all’uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due.”

La seconda è tratta da L. Longanesi “Parliamo dell’elefante”:

Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documentari di ogni sorta, ma nessuno saprà capire quel che ci è accaduto. Come tramandare ai posteri la faccia di F. quando è in divisa di gerarca e scende dall’automobile?”

Il disincanto, il pessimismo specificamente tecnico ne sono la caratteristica saliente.

La fragilità del genere umano viene messa in evidenza in tutte le sue sfumature.

Le debolezze, la crudeltà, le furbizie.

Ovunque traspare luomo con la sua propensione al servilismo verso il potere ma anche l’aggressività verso i sottoposti.

Sottolinea dunque una volta di più la vera faccia di ogni dittatura, quella cioè di sapere usare al meglio laltrui debolezza, nonché l’abilità di favorire le inclinazioni più abbiette delluomo.

Ma non appena la facciata di forza che la dittatura ostenta si incrina, intorno ad essa si fa il vuoto e ognuno è pronto a voltare le spalle e a rivolgersi a un nuovo potere, maledicendo il precedente che pure aveva servito.

Tale è la spietata analisi che traspare dalle favole di Sciascia.

Tale è la morale che scaturisce dalle metafore in esse contenute e che possiamo riassumere in un solo concetto: guai all’uomo che asseconda i poteri dittatoriali prevedendo un tornaconto, perché sarà presto disilluso e, per contro, guai a quel potere tiranno che asseconda il servilismo e l’animo abietto dei sudditi, perché al primo colpo di vento dello spirare di un nuovo potere verrà tradito.

Questo libro d’esordio contiene in sé i germi del pensiero che ritroveremo nei successivi libri di successo dellintellettuale siciliano, prima di tutto quello del moralismo. E le favole si prestano magnificamente a ciò.

Altri semi che possiamo cogliere tra le righe sono il rigore, l’analisi spesso spietata e priva di indulgenza verso i peccati anche minori, l’integrità.

Tutto ciò che ha sempre reso Sciascia indigesto, come capita a chi non è accomodante.

Un’altra costante che, partendo dall’esordio di queste favole, arriva fino al suo stile maturo è quella della brevità della forma e della frase.

Sciascia non è prolisso perché la favola di stile esopiano lo richiede:lo è per scelta, per indole, per propria forma letteraria.

Egli manca di quella prolissità che caratterizza quasi sempre gli scrittori esordienti e anche i meno giovani.

Abbreviare è il suo modo di rendere più chiari i concetti, il che non significa semplificare o banalizzare, al contrario.

Per meglio comprendere stile e contenuti delle favole ne riportiamo alcune:

Ma è soltanto un asino.

Cercando col muso tra i resti di un carro di carnevale, lasino scoprì una enorme testa di leone: vi infilò dentro la sua e, mezzo accecato da quella testa di cartapesta che intorno alla sua si muoveva come un cappello in cima a un bastone, uscì per i campi ragliando di gioia. Galoppando, entrò in mezzo a un gregge tranquillo, arruffandolo di spavento e di confusione. Subito però il castrato più anziano capì di che si trattava. “Sei il signore di noi tutti” belò; “disponi di noi come vuoi”. Lasino accettò lomaggio con altissimo raglio. E un agnellino osservò allora al castrato: “Ma è soltanto un asino”. E il castrato: “Stupido, lo so bene che è un asino. Bisogna però trattarlo come un leone, se non vuoi che i suoi calci ti piovano sulla schiena. Quando il padrone verrà a riprenderlo, sapremo come chiamarlo”.

Il canarino

Presso la gabbia del canarino, il gatto di casa spiegava a un suo amico in visita: “Certo, mi piacerebbe tanto mangiarlo. Ma per ora non ci tento; il suo canto è delizioso, addolcisce spesso la mia vecchia noia”.

Luomo in divisa

Guardando luomo in divisa, chiuso e rigido dentro tanto splendore, la scimmia pensò: “in fondo la mia condizione non è triste: mangio bene, faccio la mia ginnastica, la gente che si affolla intorno a questa gabbia mi diverte. Ma vorrei tanto avere un vestito come il suo”.

Dentro la trappola

Dentro la trappola, una di quelle trappole a gabbia, il topo stava quieto, pieno di disgusto e di noia. Luomo entrò in cucina e stette a guardarlo. Quando incontrò gli occhi delluomo, il topo capì che stava scegliendoli un genere di morte. “Poveretto”, pensò, “sta pensandoci più di me che debbo morire”.

I topi le talpe e le faine

I topi le talpe e le faine, tutti gli animali che rosicchiavano ai margini di una fattoria, progettavano una rivoluzionaria occupazione della dispensa e del pollaio. Ottimo era il piano; ma fu la talpa a preoccuparsi della data. “In inverno”, disse. Ci sono tante cose favorevoli in inverno”. E qui diventò eloquente e precisa; fu acclamata:

Gli altri non pensarono che, dinverno, le talpe profondamente dormono”.

Diciamo pure la verità: le “Favole della dittatura” ci lasciano alquanto frastornati.

Lo stile sembra farci fare un balzo all’indietro di centinaia e centinaia di anni, fino alle origini delle favole, fino a tornare a Esopo e Fedro.

E così, pur essendo nel 1950, esse paiono annullare ogni mutamento stilistico e di forma che Goethe dapprima, poi Andersen, infine Hermann Hesse avevano apportato, nell’evoluzione letteraria dei secoli.

Pur tuttavia ci soffermiamo ancora una volta – così come d’uso in questa rubrica – sul contenuto e sull’adeguatezza della morale ai tempi in cui esse furono scritte.

Come spesso sottolineato nel corso di questi articoli, la morale contenuta in una favola è quasi sempre di opposizione al potere.

Sciascia utilizza la favola proprio in questo modo.

Nelle sue brevi favole stigmatizza in primis la dittatura fascista, ossia quella dittatura appena vissuta, subordinatamente la dittatura nazista, e con esse ogni forma dittatoriale che si possa conoscere.

Chiaro è il messaggio, chiaro è il monito: sceglie deliberatamente una forma arcaica per rappresentarle, perché balzi agli occhi che le dittature sono uguali in ogni tempo, ieri come oggi, e ciò poiché la natura dell’essere umano sostanzialmente non cambia nei secoli!

Chiaro è soprattutto l’ammonimento per il futuro.

Chiaro è per noi, gente del terzo millennio, di fronte alla  realtà quotidiana che osserviamo.

Ancora una volta la favola ha saputo trasmettere in metafora un messaggio universale ed eterno!

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Titolo: “La Sicilia, il suo cuore
Favole della dittatura”
Autore: Leonardo Sciascia
Editore: Adelphi 1997, pag 71

Sinossi:

Scritte da Leonardo Sciascia con una finezza e una leggerezza di dettato sorprendenti in un’opera d’esordio, le giovanili Favole della dittatura (1950) sono anzitutto quello che sembrano: ovvero trasparentissime, appuntite allegorie che denunciano gli orrori della dittatura fascista, da pochi anni conclusa, e di tutte le dittature e le tirannie, con i loro archetipi comportamentali sinistri e grotteschi. Così, nell’uomo «chiuso e rigido dentro tanto splendore», il lettore scorgerà infallibilmente un Ciano o uno Starace: ma soprattutto non potrà non cogliere nella contrapposizione tra lupo e agnello, gatto e canarino, uomo e topo, padrone e asino (o cane) la divisione tra carnefici e vittime, dominanti e dominati; nei corvi (neri) gli integrati e gli organici e nei passeri e nei colombi i disorganici; e ancora in porci, faine, volpi, lumache e talpe altrettante allusioni ai tipi – e ai loro tic – di ogni regime. Come notò Pasolini, che fu tra i primi lettori di queste «favole», «l’elemento greve, tragico della dittatura ha grande parte in queste pagine così lievi, ma è trasposto tutto in rapidissimi sintagmi, in sorvolanti battute che però possono far rabbrividire».
Lo stesso «sapore metafisico» ritroviamo anche nelle poesie pressoché coeve alle Favole, raccolte sotto il sintomatico titolo La Sicilia, il suo cuore (1952). In versi di straordinaria economia espressiva, dove l’autore già rivela la sua innata capacità di contemperare ricchezza di immagini e asciuttezza di scrittura, avvertiamo infatti l’arcana risonanza che si leva dalle descrizioni dei luoghi, come se qui la parola riuscisse a ridurre alla quintessenza l’anima della Sicilia, il suo cuore di ulivi, di mandorli, di roveti, dove risuona «cupo il passo degli zolfatari».