Adele – di Giuseppina Torregrossa

Recensione di Federica Sanguigni

Adele

Adele è un monologo teatrale scritto da Giuseppina Torregrossa, insignito del Premio Roma 2008 “Donne e Teatro” ed edito da Nottetempo nel 2012.

Ambientato nella Sicilia degli anni Sessanta, questo monologo teatrale in tre atti ci presenta uno spaccato di vita domestica inquietante e angoscioso dove Adele, la protagonista, attraverso un vero e proprio viaggio nella memoria, racconta la sua triste storia.

Una storia di violenza, di rassegnazione, di incomprensione.

Con un linguaggio crudo e asciutto, colorato di espressioni dialettali che rendono il racconto ancora più carnale, Adele apre la scatola dei ricordi attingendone a piene mani, senza sconti e senza inutile pietismo.

“Sì, è vero che me lo sono maritato, ma che potevo fare?

Il cornuto, quello che mi aveva messa incinta, sì il cornuto, manco lo voglio nominare, se n’era scappato.

Il manciato mi sbavava dietro e io ho accettato di sposarlo, così potevo dare un nome al bambino.”

Quale altra scelta poteva avere una donna siciliana negli anni Sessanta in attesa di un bambino il cui
padre se ne era andato?

Cosa doveva fare Adele per evitare la pubblica gogna, l’emarginazione, la condanna a vita per essere madre senza anello al dito? Come poteva risparmiare l’umiliazione alle sue sorelle che avrebbero, di riflesso, perso anch’esse la reputazione?

L’unica soluzione era trovare un marito e il manciato, dalla pelle simile a quella di un lebbroso per via di una malattia che lo aveva ricoperto di croste dalla testa ai piedi, era lì, disponibile a fare da padre a un figlio non suo pur di sposarsi perché tanto nessuna femmina del paese gli aveva voluto dire di sì e mai gliel’avrebbe detto.

Patti molto chiari, però: avrebbero dormito in camere separate e mai lui l’avrebbe neanche sfiorata.
Dopo il matrimonio con il manciato, Adele dà alla luce il bambino che aspettava, Ciccio, un bimbo con due dentini aguzzi che piange sempre e le toglie la pace e che, per assurdo, il marito riesce a far stare calmo.

Si crea, tra i due, una sorta di legame quasi affettuoso, simile a padre e figlio e non privo, comunque, di botte e di violenza.

Adele mal sopporta le due presenze maschili in casa e sfoga la sua rabbia e la sua frustrazione proprio contro il figlio, vittima innocente quanto la madre, nel quale la donna ritrova la presenza dell’uomo che l’ha abbandonata e costretta alla sua infelice vita.

Gli anni trascorrono lenti e spenti tra le mura domestiche fino a quando il manciato rivendica i suoi diritti di marito.

Una sera che, come solito, era salita a portargli un bicchier d’acqua, Adele si ritrova tra le grinfie di quell’uomo orrendo che prende quello che, secondo lui, gli spetta di diritto.
Gli occhi limacciosi sono un lago di violenza che il mio corpo aveva intuito, ma che la mia mente non sapeva definire.
Dalla violenza nasce un bambino che Adele amerà subito.

Calmo, tranquillo, completamente diverso da Ciccio, Gabriele non piange, non dà fastidio ma crea, tra la donna e il primogenito, un distacco come un solco profondo.

Tutte le mattine vado in Chiesa a chiedere perdono a Dio per quel piacere che provo ogni volta che il manciato le suona a Ciccio.

“Non ci posso fare niente, quel figlio mio mi smuove i nervi, a cominciare dal modo di camminare…”

Adele diventa vittima del suo stesso dolore, carnefice di quel figlio che odia e consapevole che odiare così un figlio è cosa del diavolo.

Le giornate della donna trascorrono una dopo l’altra senza emozioni, sempre uguali.

La casa da mandare avanti, il pranzo da preparare, il piccolo da accudire (Ciccio è andato a vivere con la nonna) e poi … la notte è sempre la stessa turilla.
Ciccio torna a casa la domenica e pranzano insieme, senza parlare, senza raccontarsi.

Non risponde alle domande della madre finché, stanco, alza gli occhi.

“I miei occhi si fissano nei suoi.

Ciccio ha nel cuore un dolore come un vulcano in eruzione, dilaga nella stanza, scorre tumultuoso come le rapide di un fiume, mi circonda le caviglie e sale su fino alla gola.

Io non respiro più, sommersa da quell’onda che non si ritira, l’anima gonfia d’angoscia per il male che ho procurato a questo figlio mio, per tutto il veleno che gli ho somministrato, per tutto il gas che gli ho fatto respirare.

Lui sostiene il mio sguardo, non l’abbassa neanche per un secondo, è coraggioso e tracotante, è così bello che mi fa male al cuore.

Lo amo come ho amato suo padre, lo odio quanto ho odiato suo padre.

E quando i suoi occhi s’incontrano con i miei, tutta la nostra storia, la mia e la sua, si materializza nella stanza, i nostri fantasmi ci prendono per mano e ci riportano indietro nel tempo e passeggiamo insieme tra i ricordi.”

Una pagina intensa, struggente, che mette in risalto il tormento di una donna marchiata da un dolore estremo, una pena infinita che le ha divorato l’anima e la mente.

Adele pensa all’amore per l’uomo che l’ha abbandonata e costretta a una scelta cruda e sofferta. Una scelta che ha condizionato la sua vita ma anche quella di suo figlio.

Un figlio che, dopo tanti anni, dopo tanta violenza, odio e rifiuto, si anima nel confidarle la gioia di un amore appena nato. Un figlio a cui Adele, anche in questa circostanza, avrà modo di far del male.

Un male non voluto, una frase scappata dalla bocca senza pensarci, un’osservazione tagliente come la lama di un coltello.

È una corsa in treno, questo monologo.

La scrittura verace, sanguinante, cattura il lettore e non gli concede il tempo di una, seppur brevissima, sosta. La riflessione arriva dopo, lenta e necessaria.
L’immensa sofferenza di Adele diviene la sofferenza di ogni donna, anche di chi, fortunatamente, non ha mai vissuto una tragedia simile.

Le parole di Adele, pesanti come macigni, si insinuano nella mente di chi legge. Il suo tormento si appiccica alle pareti dell’animo e non va via.

È di una triste e sconvolgente attualità questo racconto ambientato anni addietro. Delle lacrime e del dolore di Adele sono pieni i cuori di tante donne che vivono, quotidianamente, realtà simili. Ancora oggi. Assurdamente oggi.

La violenza sulle donne è un dramma sociale che miete vittime senza sosta.

E vittime sono anche i figli, le creature innocenti che respirano odio giorno dopo giorno tra le mura domestiche non più braccia protettive ma sbarre di una galera asfissiante.

Bambini e bambine, adolescenti saturi di una concezione sbagliata dell’amore, dove un padre prende ciò che vuole e restituisce rabbia e frustrazione sotto forma di botte e minacce psicologiche.

Adele è una donna siciliana degli anni Sessanta. Ma Adele è la vicina di casa con i lividi che si fa
finta di non vedere.

Le urla di Adele sono quelle silenziose di un’amica che ha paura di parlare.

Le sue lacrime sono condite con il sangue dell’ennesimo schiaffo, quello che si giustifica sperando nel cambiamento.
Adele siamo tutte noi.

La violenza non guarda in faccia nessuno.

Entra nelle case del ricco e del povero.

Infetta l’aria delle giovani coppie e di quelle più anziane.

Ruba l’amore, quello vero, alle donne in carriera e a quelle meno istruite.

Adele è vittima, come innumerevoli donne, di uomini prepotenti e insicuri, ai quali piace sottomettere le donne in nome di un amore che non conoscono.

Perché l’amore non usa la violenza.
L’amore è rispetto e comprensione.
L’amore non picchia e non umilia.
L’amore non fa male. MAI.
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Sinossi

Un vestito logoro e le spalle curve, Adele è sola in cucina e si abbandona ai ricordi del suo unico amore che le ha lasciato un figlio e costretta a un matrimonio riparatore con il manciato, chiamato così in paese per “le croste che lo coprono dalla testa ai piedi che manco i peli neri e fitti riescono a nascondere”.

Con questo fulminante monologo, che le è valso il Premio Roma 2008 Donne e Teatro, Giuseppina Torregrossa ci regala un’indimenticabile figura di donna siciliana, la cui bellezza spavalda resiste al tempo e ai dolori.

Autore: Giuseppina Torregrossa
Titolo: Adele
Edizione: Nottetempo, 2012