Artemisia Gentileschi: il riscatto dell’arte
a cura di Paola Treu
“[…] questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nella professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso ardir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere.” (Orazio Gentileschi, Lettera a Cristina di Lorena, 3 luglio 1612)
Nata a Roma l’8 luglio del 1593, figlia di Prudenza Montone e del pittore pisano Orazio Gentileschi, Artemisia fin da bambina si trova a giocare con i colori del padre e a posare per lui come modella per i suoi dipinti.
È nello studio romano di Orazio, infatti, che la giovane inizia i suoi studi di arte pittorica che la porteranno, ben presto, a intraprendere, con grande abilità, una carriera distinta e autonoma che, seppur ostacolata, soprattutto all’inizio, da una certa discriminazione culturale di natura sessuale, la renderà ugualmente una delle più famose pittrici della storia.
Nel 1609 Artemisia ritrae l’amica Tuzia con il figlio per una “Madonna col Bambino”. La precoce data del 1610 posta nella “Susanna e i vecchioni” di Pommersfelden (prima opera firmata dall’artista e capolavoro di altissimo livello) indica come da subito la sua personalità creativa si distingua da quella del suo maestro.
Il 6 maggio del 1611 accade quel terribile fatto che segna drammaticamente la sua vita personale e artistica, vale a dire la violenza subita da Agostino Tassi, o “lo smargiasso”, com’è soprannominato, pittore di prospettiva che collabora strettamente con il padre Orazio, contribuendo, inoltre, a far sì che la storiografia contemporanea e la critica successiva si interessino più alla sua vita e meno alla sua opera, in una connotazione spesso di stampo femminista.
In Artemisia Gentileschi si riconosce, infatti, una figura culto del femminismo, paradigma della sofferenza, dell’affermazione e dell’indipendenza della
donna.
È vero che grazie al suo coraggio e alle sue doti sfida le consuetudini del suo tempo, raggiungendo livelli altissimi, ma resta tuttavia una definizione alquanto riduttiva, se è vero che, come afferma Almansi, “un pittore di talento come la Gentileschi non può limitarsi a un messaggio ideologico.”
Si deve a Roberto Longhi e al suo pioneristico articolo del 1916 “Gentileschi padre e figlia”, il primo serio tentativo di analizzare la produzione dell’artista nel più vasto contesto del caravaggismo e, soprattutto, di tentare una prima accurata distinzione delle opere della figlia rispetto a quelle del padre.
Il giudizio del Longhi è decisamente lusinghiero:
“L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura e colore, e impasto, e simili essenzialità […] nulla in lei della peinture de femme che è così evidente nel collegio delle sorelle Anguissola, in Lavinia Fontana, in Madonna Galizia Fede, eccetera.”
Per molto tempo lo stupro, avvenuto anche con la complicità dell’amica Tuzia, viene taciuto.
Tradimento questo dell’amica che segnerà profondamente Artemisia, tanto da fare della solidarietà femminile uno dei temi ricorrenti della sua opera, come si può notare nelle diverse versioni di “Giuditta e la fantesca” e “Giuditta che decapita Oloferne”.
Dopo quasi un anno, nel marzo del 1612, si apre il processo – del quale esistono i documenti che ci tramandano tutti gli atti e le testimonianze – che si conclude con una lieve condanna del Tassi e con l’umiliazione di Artemisia attraverso plurime visite ginecologiche e torture fisiche.
Alla fine di tutto ciò, nel novembre dello stesso 1612, Artemisia si trasferisce a Firenze costretta dal padre a sposare il fiorentino Pierantonio di Vincenzo Stiattesi, un pittore mediocre.
Le opere che dipinge dopo i fatti tragici di questo periodo dimostrano, come tante volte la critica ha sottolineato, particolare drammaticità formale e asprezza realistica, elementi di discendenza caravaggesca che daranno una decisa svolta allo stile ancora classicista delle prime opere.
Nel 1612 Artemisia esegue la famosa “Giuditta che decapita Oloferne” del Museo Capodimonte di Napoli (di cui eseguirà un’altra versione, del 1620, oggi conservata agli Uffizi), che darà il via alla serie di coraggiose eroine bibliche o mitologiche che saranno spesso protagoniste dei suoi dipinti.
Figure di donne rammatiche, complesse e sfaccettate. Salta all’occhio il cambio del ruolo della donna: se in “Susanna e i vecchioni” è quello della vittima, ora agisce e si vendica.
A Firenze Artemisia rimane fino al 1620, lavorando sotto la protezione del Granduca di Toscana Cosimo II e di Michelangelo Buonarroti il Giovane, il quale, nel 1615, le commissiona “L’Allegoria dell’Inclinazione” (1615).
Nel 1616 Artemisia venne accolta come membro della prestigiosa Accademia del Disegno di Firenze, prima donna in assoluto a ricevere questo onore.
In questa città continua a dipingere molte opere destinate a lasciare un certo influsso sulla pittura locale: “Giuditta e la fantesca” (1614), “Santa Caterina” (1614- ‘15), “Minerva” (1615), “Maddalena penitente” (1617-‘20) e “Giaele e Sisara” (1620).
Nel 1621 Artemisia sarà di nuovo a Roma, insieme alle figlie e al marito che ben presto, nel 1623, andrà via per sempre.
È ormai una seria professionista, ammirata da molti signori e mecenati e stimata anche dai colleghi pittori, italiani e stranieri, che lavorano nella città pontificia.
In questo periodo sono documentati due soggiorni importanti dell’artista: uno a Genova, dove conosce Van Dyck e dove esegue una “Lucrezia” (1621) e una “Cleopatra” (1621), e un altro a Venezia.
Tornata a Roma dipinge il “Ritratto di gonfaloniere” (1622) e il famoso quadro “Ester al cospetto di Assuero” (1622-1623), stringendo numerosi contatti con artisti caravaggisti italiani e stranieri.
Nel 1630, dopo aver terminato il famoso “Autoritratto come allegoria della pittura” dipinto su commissione di Cassiano dal Pozzo, si trasferisce a Napoli dove realizza molti dipinti, compresa una delle sue pochissime opere a destinazione pubblica:
“L’Annunciazione” (1630) e un ciclo di tele per la cattedrale di Pozzuoli. Nel 1637 Artemisia riceve l’invito dal re Carlo I a recarsi in Inghilterra per collaborare con il padre Orazio, che si trovava già lì dal 1628.
Così la pittrice va in aiuto del padre ultrasettantenne per terminare il ciclo di nove tele per il soffitto della Queen’s House di Inigo Jones a Greenwich. Il programma iconografico del lavoro della pittrice sarà “L’Allegoria della pace e delle arti sotto la corona inglese” (1638-1639).
Mancato Orazio nel 1641, Artemisia decide di ritornare a Napoli.
Il suo successo è, oltre che immediato, di altissimo prestigio: ha saputo costruire con abilità la propria carriera raggiungendo, anche in termini di mercato, un riconoscimento senza precedenti nell’ambito della pittura al femminile.
Eccezionale testimonianza di questa sua naturale aspirazione ad affermarsi autonomamente sono le tredici lettere cheArtemisia invia a Don Antonio Ruffo tra il 1649 e il 1651.
La pittrice discute con lui sui prezzi dei quadri, accusandolo più volte di sottovalutarla solo perché donna: “Il nome di donna fa star in dubbio finché non si è vista l’opera” (1649) e promette che gli avrebbe mostrato “quello che sa fare una donna”, perché in lei è “un animo di Cesare nell’anima di
una donna.”
Fama e successo però sono effimeri. Nei suoi ultimi giorni conosce la povertà ed è costretta a vendere i suoi dipinti a basso prezzo. Inoltre quel suo passato oscuro, difficile da gestire, e la fama di donna licenziosa non l’abbandoneranno mai.
L’ultimo periodo della sua vita, a Napoli, è uno dei più difficili. Forse la stanchezza di un’esistenza vissuta tanto intensamente, probabilmente l’esaurirsi della vena artistica e il continuo bisogno di denaro rendono i suoi ultimi lavori meno ricchi dal punto di vista creativo; fino alla morte, che sopraggiunge nel 1652.