La lenta evoluzione dei reati sessuali
Dall’onore del padre alla libertà individuale della vittima
Voce alla Legge
a cura di Veronica Sicari
L’evoluzione dei reati sessuali è stato un percorso lungo e doloroso: dalla tutela dell’onore del padre alla libertà individuale della vittima
Il cammino di emancipazione delle donne italiane è stato lungo e faticoso. È durato decenni, ed è ancora in corso. Tante le norme emanate in questi anni per cercare di eradicare le tradizioni patriarcali nascoste tra le pieghe di legislazioni ormai anacronistiche, e sicuramente non in linea con i principi che dovrebbero sostenere e reggere lo Stato di diritto.
I diritti delle donne e l’uguaglianza, formale e sostanziale, sono diritti umani.
E come tali vanno garantiti e tutelati.
Il 15 febbraio 1996, con l’emanazione della legge n. 66, il Legislatore italiano ha finalmente superato uno dei più macroscopici esempi subordinazione patriarcale delle donne.
La legge del ’96 ha dato vita ad una profonda riforma dei reati sessuali.
Nella normativa in vigore fino a quel momento, lo stupro veniva considerato un reato lesivo della moralità pubblica e del buon costume, non della libertà individuale della donna che ne era vittima.
La formulazione originaria del Codice penale, emanato in epoca fascista, riteneva che lo stupro o qualsivoglia atto di sessuale fosse un’onta all’onore, sottolineando con l’esplicito riferimento alla moralità pubblica, la dimensione collettiva della tutela, e non quella individuale della vittima.
Da un punto di vista sociale, della violenza sessuale subita veniva sempre ritenuta colpevole la donna, non anche l’uomo. Ciò che rilevava era la perdita di “purezza”: che questa fosse avvenuta senza il consenso della vittima, non rilevava.
La donna violata finiva per subire uno stigma sociale, additata come “rovinata”.
La riforma dunque ha rappresentato un cambiamento epocale particolarmente importante nel lungo percorso di emancipazione femminile.
Ad onor del vero, già qualche anno prima della riforma la giurisprudenza aveva cercato di apportare un cambio di prospettiva, quanto meno da un punto di vista pretorio, alla rigidità della definizione normativa, con espresso riferimento alla violazione della libertà sessuale della persona offesa. Ma si trattava di interventi circoscritti, delimitati ai casi concreti di volta in volta sottoposti all’esame dei giudici.
Nel dicembre del 1965, trent’anni prima della novella legislativa, la quindicenne siciliana Franca Viola fu rapita dal suo ex fidanzato, con la complicità di un gruppo di giovani, e stuprata.
All’epoca, era ancora vigente l’art. 544 del Codice penale, a tenore del quale, nel caso di violenza carnale
“il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali“.
Tutelati da una normativa che non teneva in alcuna considerazione la reale volontà delle vittime, gli stupratori potevano andare esenti da pena e non esser perseguiti per il reato commesso, sposando la ragazza abusata. Il matrimonio aveva, nell’ottica dell’allora normativa vigente, il potere di riequilibrare l’onore leso, e rendere legittimo il rapporto sessuale consumato.
La vittima, spinta dalla pressione sociale a sposare il proprio aguzzino, veniva violata due volte, costretta a condividere la vita con un uomo che le aveva rubato il futuro. Solo il matrimonio poteva ripristinare l’onore perduto, e rendere possibile il reinserimento della donna nella società.
Il matrimonio riparatore era l’istituto che, quindi, metteva bene in luce i rapporti di forza e sociali tra uomini e donne: lo stupro non era motivo di vergogna e gogna pubblica per chi lo compiva, ma per chi lo subiva suo malgrado.
Liberata dall’intervento delle forze dell’ordine, la giovanissima Franca Viola, nonostante la morale dell’epoca, scelse di non acconsentire al matrimonio. Decise di trascinare dinnanzi ai giudici i suoi carnefici.
Tuttavia il coraggio della ragazza, e lo scalpore della vicenda, non furono da soli sufficienti a stimolare un cambio di passo nella legislazione allora vigente: il matrimonio riparatore rimarrà in vigore nel nostro ordinamento fino al 1981, abrogato con la legge n. 442, del 5 agosto di quell’anno.
Dopo il referendum sul divorzio (1974) e la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (1978).
La società civile non era totalmente inerte; esisteva già allora un impegno militante in favore di un cambio di rotta. I movimenti femministi, soprattutto, si battevano strenuamente per modificare la legge vigente.
Quell’impostazione patriarcale influiva fortemente anche sullo svolgimento dei processi. Per avere un’idea di cosa accadesse dentro le aule di giustizia, è sufficiente guardare il docu-film “Processo per stupro 1979”, trasmesso all’epoca dalla RAI e oggi disponibile in rete.
Il documentario fu realizzato da un gruppo di giovani donne appartenenti al movimento femminista della Casa delle donne di via del Governo Vecchio a Roma.
La vicenda documentata riguardava lo stupro di gruppo di una giovane ragazza romana, Fiorella, attirata con la falsa promessa di un lavoro da uno dei suoi stupratori, e abusata. Dopo la violenza, sospettando che la ragazza potesse denunciarli, gli uomini avevano cercato di offrirle del denaro. Ma Fiorella, supportata dalla rete femminista citata, decise di agire in giudizio, e raccontare la terribile violenza subita.
Il video del processo mostra le parti più salienti del giudizio: in particolare, l’esame degli imputati e la loro strategia difensiva, nonché l’esame, poi proseguito a porte chiuse, della stessa persona offesa. Le domande poste agli uomini e poi anche alla ragazza hanno tutte lo scopo di minare la sua onorabilità: gli imputati affermano, infatti, che i rapporti consumati fossero consenzienti e che la ragazza avesse prestato il proprio consenso dietro la promessa del pagamento di una somma di denaro.
Alla ragazza vengono poste domande assolutamente non pertinenti con l’oggetto del giudizio: si cercò di indagare sulle sue abitudini sessuali e sulle sue precedenti relazioni, per suffragare la tesi difensiva fondata sulla sua scarsa moralità.
Particolarmente interessante è anche la brevissima intervista, avvenuta al di fuori dell’aula, ad un gruppo di donne, per lo più madri e mogli degli imputati, che giustificano l’azione commessa, colpevolizzando la ragazza, che avrebbe cercato e voluto le attenzioni sessuali del gruppo. All’esito del processo, tutti gli imputati vennero riconosciuti colpevoli della violenza.
Quel documentario diede vita ad un forte dibattito, ma non fu da solo sufficiente a provocare un cambio di rotta legislativo, che avverrà diciassette anni dopo.
La riforma del ’96 ha restituito ai corpi abusati dignità, riconoscendo alle donne il pieno possesso di sé stesse, della propria sessualità, e soprattutto permettendo di condannare l’indebita intrusione nell’altrui sfera intima, tenendo il punto sulla vittima e non sull’onore della famiglia. Quanto meno legislativamente.
La legge fu fortemente voluta da tutte le donne presenti in Parlamento, a prescindere dal loro colore politico. I tempi erano più che maturi per compiere un passo in avanti nella tutela delle donne.
Non è un caso che tra le promotrici e firmatarie della legge n. 66/1996 ci fosse Tina Lagostena Bassi, tra le avvocate più impegnate nella lotta alla violenza di genere e alla tutela dei diritti delle donne della sua generazione, nonché difensore della giovane Fiorella nel processo del ’79.
La battaglia per ottenere una riforma dei reati sessuali e il raggiungimento della parità femminile in uno Stato ancora immobile alla scala valoriale del secolo precedente non fu soltanto una battaglia del movimento femminista.
Riguardava tutte le donne. Nessuna esclusa.
Oggi i delitti sessuali sono stati inseriti al titolo XII del Codice penale, ossia quello concernente i delitti contro la persona, e più specificatamente al capo III, che disciplina i delitti contro la libertà individuale.
La riforma ha esteso il concetto di violenza sessuale, considerando tale qualsiasi atto definibile come sessuale, prevedendo la possibilità di gradare la pena in base alla gravità della condotta.
Di fatto, rientrano in questa nozione non soltanto l’atto compiuto con fine di concupiscenza dell’autore, ma anche quello che abbia scopo ludico o di umiliazione della vittima.
A dispetto di quanto possa sembrare, la violenza sessuale non viene perpetrata dal suo autore esclusivamente per soddisfare un istinto sessuale: si tratta di un vero e proprio atto di potere ed umiliazione, un modo per sottomettere la vittima e affermare la propria posizione di supremazia.
La novella del ’96 ha disciplinato con particolare attenzione la materia: ha previsto tutta una serie di circostanze aggravanti, tra le quali, ad esempio, l’esistenza di un legame di parentela tra la vittima e l’abusante, e ha inserito una norma specifica che punisce quale fattispecie autonoma l’ipotesi di violenza sessuale di gruppo.
Ha inoltre posto una serie di norme a tutela della libertà sessuale dei minorenni, prevedendo la fattispecie di atti sessuali con minorenne, che considera violenza qualsiasi rapporto sessuale compiuto con una persona minore degli anni 14, a prescindere dal suo eventuale consenso.
Il minore che abbia compiuto 13 anni può compiere atti sessuali con altro minore, purché tra i due non vi siano più di quattro anni di differenza.
La norma prevede altresì che l’età del consenso sia innanzata a 16 anni – e non 14 – quando il maggiorenne è legato al minore da un particolare rapporto (che sia di famiglia, o di mera cura o custodia).
Tuttavia, di consenso si parla espressamente con riguardo ai minorenni, non anche nella norma che punisce lo stupro in generale (art. 609 bis cod. pen.): si è preferito ancorare la punibilità degli atti sessuali quando questi avvengono per costrizione o induzione, evitando un esplicito riferimento al consenso che avrebbe potuto comportare difficoltà di accertamento in sede processuale.
Ciò non significa che il consenso non rappresenti il discrimine per punire un atto sessuale: un atto compiuto per costrizione presuppone l’assenza di consenso; per induzione, un consenso che non si è formato in maniera libera.
Lo stupro non richiede l’accertamento necessario di segni evidenti quali lividi o ferite da difesa.
È una convinzione fallace: spesso accade che la vittima, minacciata, spaventata, o sotto effetto di sostanze stupefacenti o alcool, non abbia opposto resistenza attiva.
Ciò non esclude aprioristicamente che la violenza ci sia stata, né tanto meno rende la vittima corresponsabile.
La violenza sessuale è un reato particolarmente odioso e produce conseguenze serie a livello psicologico.
Di recente, la riforma del 2019 (il cd. Codice rosso) ha modificato ancora una volta la normativa in materia, tra l’altro prevedendo la possibilità di poter sporgere querela sino a 12 mesi dall’avvenuta violenza, contro gli ordinari 3 mesi concessi nel caso di altri reati. Inoltre, si tratta di querela irrevocabile.
Il legislatore ha previsto un termine più ampio per procedere alla querela di questa tipologia di reati proprio per la loro gravità, e per il forte e devastante impatto psicologico ed emotivo che le violenze sessuali producono sulle vittime.
Spesso le donne che subiscono una violenza carnale fanno fatica a denunciare, per paura di non esser credute.
Perché sebbene la legge oggi vigente cerchi di tutelare la vittima del reato, continua a sopravvivere quello strisciante retaggio culturale secondo il quale una vittima di stupro potrebbe aver concorso a provocare il reato.
Sussiste un sottile pregiudizio, tra l’altro infondato perché non giustificato da dati reati, secondo il quale le donne mentano perché pentitesi di rapporti sessuali consenzienti, o al solo fine di rovinare la vita e la reputazione del presunto abusante.
È un pregiudizio patriarcale, perché sorregge soltanto questa tipologia di reati, non altri.
Il nostro ordinamento prevede una serie di stringenti garanzie a tutela degli indagati e degli imputati, prima tra tutti la presunzione di innocenza, che è tra i principi che differenzia uno Stato democratico da uno di polizia.
Ma un conto è l’accertamento processuale di un fatto di reato, con relativa assoluzione o condanna sulla base di prove e con le garanzie ammesse dalla legge, altra è la gogna e il discredito che spesso accompagna la querela.
Gogna e discredito nei confronti della querelante.
Paola Di Nicola, una giudice che si occupa spesso di casi di violenza di genere, nel suo coraggioso libro “La mia parola contro la sua, ovvero quando il pregiudizio è più importante del giudizio” affronta la tematica dei pregiudizi e degli stereotipi di genere, che spesso condizionano lo svolgimento dei processi, perché tutti gli attori coinvolti (dagli avvocati ai magistrati) ne sono più o meno consapevolmente imbevuti.
Citando il Relatore speciale sull’indipendenza dei giudici e degli avvocati presso l’Alto commissariato ONU, scrive:
“Le procedure e le regole probatorie nel sistema della giustizia penale sono spesso infiltrate da forti stereotipi di genere che possono portare magistrati e avvocati ad adottare un comportamento fondato su pregiudizi di genere e che può portare a una discriminazione contro le donne del sistema penale in generale”.
La giudice continua parlando dei “miti dello stupro”, ossia dei pregiudizi che riguardano la violenza sessuale, “causa principale dell’impunità del suo autore tra cui, ad esempio, che ci vuole la prova della violenza fisica per dimostrare la mancanza di consenso; che le donne mentono; che sono sessualmente disponibili e acconsentono al sesso forzato visto che restano in silenzio; che sono responsabili delle aggressioni sessuali se restano fuori casa fino a tardi o se si vestono in modo particolare; che sono comunque colpevoli piuttosto che vittime”.
Tra l’altro, queste pratiche di colpevolizzazione della persona abusata spesso sono perpetrate anche dalla stampa, che nell’enfasi di raccontare determinate notizie, utilizzano un approccio vittimizzante nei confronti di chi querela, o tendono ad edulcorare, enfatizzando meriti, ad esempio, professionali del presunto autore. In realtà, già la Convenzione di Istanbul aveva posto delle regole ben precise in materia di informazione dei mass media, poi recepite nel Manifesto di Venezia del 2017, che pone 10 regole sull’uso corretto e consapevole del linguaggio, soprattutto in materia di femminicidi.
Il superamento di una certa cultura patriarcale, così profondamente radicata nel tessuto sociale non è semplice. Si tratta di una rivoluzione culturale, nella quale il lavoro più importante è rimesso ai singoli.
Movimenti come il Me Too, nato sui social media per dimostrare l’endemico fenomeno delle molestie sessuali sul posto di lavoro, hanno spinto milioni di donne a raccontare le proprie storie di molestie e abusi, e a denunciare la cultura dello stupro, ossia quel modello sociale nel quale atteggiamenti predatori o abusanti vengono normalizzati.
Il dibattito pubblico a tutti i livelli e una maggiore consapevolezza di donne e uomini su tali tematiche sono le vie maestre per modificare la società nella quale viviamo, per renderla un posto migliore, e più sicuro per tutte e tutti.
Veronica Sicari, avvocata.
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IL MOSTRUOSO FEMMINILE. IL PATRIARCATO E LA PAURA DELLE DONNE – di Jude Ellison Sady Doyle