La caccia alla strega. Quando il “diverso” fa paura

di Emma Fenu

streghe
Sguardo che ammalia e seduce.
Movenze feline, rapide e sinuose.
Mani come tele di ragno, capaci di irretire e imprigionare, con un solo gesto.
Bocca che proferisce formule arcane, attraverso le quali governare gli eventi.
A me il potere!”: un urlo che fende, come una lama intrisa di sangue, l’oscurità della notte.

Ecco la Strega, quale, nell’immaginario collettivo, a cavallo di una scopa, percorre itinerari magici, dalle pagine di fiabe e racconti fino alle feste, illuminate da zucche scavate ad arte, di Halloween.

In realtà la Strega è in ogni Donna, fin dalle origini del tempo umano.
Seguite le mie orme e la scia delle mie riflessioni: oltrepasseremo, insieme, millenni di storia nello spazio di poche righe.
Fidatevi, parola di Strega.
In quasi tutte le culture primitive vige un analogo principio antropologico: il maschio si afferma nell’esercizio della caccia e della guerra, mentre, alla femmina, compete il mondo arcano dell’invisibile e i saperi occulti della chiromanzia e della taumaturgia.

In principio, la Donna era tutto: fata, sibilla, maga e, soprattutto, strega.

Quest’ultima non prediceva il destino, ma, eroina sulle tracce di Prometeo, agiva su di esso: era sorella e figlia di Circe e Medea, compiva sortilegi e, per proprio sostegno, era capace di chiamare a sé le forze della natura.
Tuttavia, con il passare delle epoche, la strega divenne il simbolo della “donna diversa”, in cui confluì un amalgama di credenze sacre, elaborato in età antica, ma, soprattutto, medievale e rinascimentale, nel quale conversero la Lilith degli Ebrei, la Lamia dei Greci e le Strigi, le Saghe e le Volatiche dei Latini.
A tali figure mitiche si affiancò, in seguito, la leggenda della brigata notturna, ossia la scorta di Diana, che venne definita triformis, in quanto dea della caccia e dei boschi, della luna e degli incantesimi notturni.
Così Omero descrisse l’incontro fra Odisseo e Circe:
Ed io alla casa di Circe andavo; e molto il cuore nell’andare mi batteva. 
Mi fermai sulla porta della dea dalle belle trecce, e là fermo gridai; la dea sentì la mia voce. 
Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti, 
e m’invitava: e io la seguii sconvolto nel cuore. […] 
Fece il miscuglio per me, in tazza d’oro, perché bevessi,
e il veleno vi infuse, mali meditando nel cuore”.
La maga dell’isola di Eea , “la dea luminosa” e “dai riccioli ribelli”, è una donna che inficia le facoltà di discernimento grazie alle proprie splendide fattezze.
L’esule eroe greco uscirà indenne dalle sue spire soltanto grazie ad un intervento divino e, comunque, solo dopo aver trascorso, con i suoi compagni, un lungo anno tra le seduzioni di Circe e delle sue ancelle.
La figura di Odisseo che, dopo essere riuscito a sopravvivere ai naufragi e alla guerra, rimane “sconvolto nel cuore” e trema, al pari di un fanciullo, al cospetto di questa figura bellissima e intrigante, apparentemente disarmata, riporta alla mente altri personaggi maschili, da Adamo in poi, che, sedotti da una donna, si sono resi colpevoli di nefandezze o coperti di ridicolo.

L’erede, seppur ben più sciagurata, della donna- maga, nell’ambito della tradizione della letteratura greca, può essere considerata Medea.

I miti sulle sue origini sono due: secondo il primo la maga, figlia del re dei Colchi Eeta e discendente dal dio Sole, sarebbe la nipote di Circe e avrebbe per madre Ecate, la dea malvagia della magia e degli incantesimi.

Un’altra tradizione la vuole, invece, figlia dell’Oceanina Idia e sorella di Circe.

In entrambi i casi la relazione di parentela con la maga dell’Odissea è tutt’altro che casuale.
In Euripide, Medea ha un duplice volto: è una donna – vittima, ossia moglie abbandonata, sola, priva di parenti, di protezione e di difesa, ma è, anche e soprattutto, una donna – mostro, ossia forte e scaltra, che arriva a compiere il più turpe dei delitti, quello che nessuna onta subita, nessuna legge umana e divina può giustificare: l’uccisione dei propri figli.

Da qui all’Inquisizione e ai roghi su cui arsero donne e fanciulle, il passo è più breve di quanto sembri.

Gli storici si sono interrogati a lungo su tale fenomeno, una delle più atroci forme di violenza antifemminile mai compiute.
Sono state individuate, a riguardo, parecchie ragioni: generalmente si ammette che la caccia alle streghe fu il risultato della proiezione, in un universo sovrannaturale, della miseria del tempo e dell’incapacità di opporsi agli assalti della natura.

La società voleva dei colpevoli e li trovò tra le componenti più anticonformiste e marginali.

Lo storico Delameau, per connotare i terrori delle epoche, usa l’immagine efficace della “città assediata”, intendendo la condizione di paura che suscita la presenza “dell’altro”, del “diverso” da sé: la collettività deve riconoscere le Nemiche, difendere un ordine che dia ragione del disordine.
Io già preveggo da sì tremende deità gran bene venirne a questi cittadini”, dice, infatti, in Eschilo, Atena, riferendosi alle Eumenidi, le figlie della Notte, mentre il corteo degli ateniesi le accompagna, tra le fiaccole, sottoterra.
Le streghe furono, dunque, fondamentalmente, “capri espiatori”.

Per gli uomini esse furono l’odiosa manifestazione del proprio femminile primitivo, che sussiste a livello inconscio, e, per le donne, esse furono l’oggetto su cui proiettare gli elementi più oscuri e incontrollabili delle muliebri pulsioni.

E oggi, chi sono le Streghe?
Chi sono coloro che si ribellano a convenzioni, che non si riconoscono in modelli stereotipati, che sono emarginate per via del proprio colore di pelle, della propria fede, della propria cultura, del proprio disagio economico?
Guardatevi intorno.

E non temete ciò che vi è ignoto: la diversità ci arricchisce e non la si può consumare neppure fra le vampe del fuoco.