Intervista a Erika Zerbini, autrice di “Nato vivo”
di Emma Fenu
“Un bambino nato vivo non cancella la morte, né allontana i demoni, solo rassicura su un fatto reale: i figli non sempre muoiono“.
“Nato vivo” di Erika Zerbini, edito da PM Edizioni nel 2016, è la storia di una donna e di una madre; di un uomo e di un padre; di bambini e di fratelli.
Un racconto straziante, struggente, vero, crudelmente ed inesorabilmente vero.
La perdita di un bambino in un aborto spontaneo lacera corpo e anima, ma l’ultima non smette di sanguinare, figlia orfana di un figlio.
Un libro che infrange la bara del silenzio per far comprendere che la maternità non accetta scorciatoie, ma è un sentiero impervio, nel quale tenderci la mano.
Ho oggi il piacere di intervistare Erika Zerbini, in un dialogo fra donne, senza filtri e senza giudizi.
Ciao, benvenuta nel salotto di Cultura al Femminile.
Sei una donna di parole e di emozioni, che racconta il lato più duro, ma anche più autentico della maternità. Non solo note di carillon e profumo di latte. Che mamma sei?
Ciao Emma, come prima cosa desidero ringraziarti per avermi accolta in questo salotto arioso e attento a tutte le declinazioni dell’essere umano.
Che mamma sono… tris mamma per chi mi vede e penta mamma per chi mi conosce.
Di solito mi definisco così.
La mia maternità è fatta anche di due figlie che non ci sono, tuttavia il loro arrivo ha determinato nuove parti di me e, con la loro morte, ho dovuto necessariamente fare i conti con una mole di emozioni che, ancora, mi hanno resa la donna e la mamma che sono.
Coi miei bambini sono una mamma osservatrice, ascoltatrice, presente nel tempo e nello spazio, coccolona e affettuosa, ma poco giocosa e ansiosa… il pericolo è sempre in agguato!
E che donna sei?
Per rispondere a questa domanda forse vale la pena delegare al racconto di una scelta compiuta quasi dieci anni fa: subito dopo esserci sposati, mio marito ed io, abbiamo scelto di trasferirci in campagna.
Così ci siamo stabilizzati in una frazione di un piccolo paese dell’entroterra ligure.
La frazione dista cinque chilometri di tornanti dal paese, arrampicata su una collina tipicamente ligure, conta 6 abitanti e 5 siamo noi.
Posso vedere la casa dei miei vicini dalla finestra della camera da letto e, osservata da lì, è grande quanto il mio pollice. Intorno a noi le colline, sopra la testa il cielo è sotto i piedi la terra. Il silenzio.
Ho scoperto che il silenzio ha un suono: parla di me, a me.
In questo luogo ho trovato la mia dimensione, perciò posso dire di essere una donna amante della quiete, dei ritmi della natura, allergica alle costrizioni, sia fisiche che mentali.
Il tuo libro, “Nato vivo”, ha pregio narrativo e, soprattutto, valore sociale, proponendosi di veicolare un messaggio coraggioso. Cosa vuoi trasmettere? A chi ti rivolgi?
È opinione comune che perdere un figlio durante l’attesa sia un fatto di poco conto. Sia una sfortuna alla quale potere rimediare mettendone al mondo subito un altro.
Invece perdere un figlio durante l’attesa è un vero e proprio lutto.
È la morte di un figlio che non vedremo mai crescere, ma che abbiamo sentito vivere dentro di noi e per il quale già stavamo facendo posto nella nostra vita e, talvolta, fra le nostre cose.
Non solo generare un altro figlio non ci restituisce quello che non abbiamo più, ma ritentare di abbracciare la vita non è più facile quanto prima.
Dal momento in cui una gravidanza si interrompe, a qualunque età gestazionale, si acquisisce consapevolezza del fatto che non abbiamo controllo sulla vita e sulla morte dei nostri figli.
Desiderare i nostri figli non significa automaticamente partorirli vivi, talvolta non significa nemmeno concepirli.
Nella nostra cultura l’immagine della madre è dipinta come una donna infallibile e, soprattutto, una donna che può dirsi tale solo se procrea facilmente e felicemente.
Con questo testo ho cercato di offrire lo spaccato di una realtà ben diversa.
Essere mamma non mi definisce in quanto donna. Avere perso due figlie durante la gravidanza non mi ha decretato fallibile: io sono sempre fallibile, poiché sono umana.
L’attesa di un figlio dopo una (o più) maternità interrotte non è una gravidanza uguale a tutte le altre, infatti è un percorso compiuto con un elemento che prima, se c’era, era latente: la paura.
Non è più possibile prescindere da essa, poiché la morte ha reso consapevoli dell’umanità e della fallibilità.
Questo testo è rivolto a tutti: mamme, papà, operatori della salute, amici e parenti.
È importante che, chiunque si trovi intorno ad una famiglia che si sta allargando, conosca la realtà, affinché possa maturare un atteggiamento adeguato, non più legato all’ideale largamente proposto.
Persone consapevoli della realtà possono contribuire alla ricostituzione di quel villaggio che nel tempo è andato perduto, affinché la famiglia che nasce non affronti da sola il cambiamento che sta attraversando.
Ad un certo punto, sia che abbraccino loro figlio o che debbano lasciarlo andare, una donna ed un uomo, nasceranno madre e padre: non essere soli e/o incompresi in questo fondamentale passaggio di vita, ha grandissima valenza sulle possibilità di esprimere liberamente il proprio stato emotivo e quindi di ricevere il supporto più adeguato alle esigenze che si manifestano.
In questo modo è possibile offrire alle famiglie le maggiori opportunità di nascere e crescere sane, e si sa che siano le famiglie sane alla base di una società sana.
Mi dai una definizione di “giusto” e di “ingiusto”?
Questa è una domanda difficile, alla quale non credo di sapere rispondere.
Il concetto di giustizia, e quindi di ingiustizia, varia da persona a persona, da contesto a contesto.
Tuttavia mi trovo spesso di fronte alla necessità di fare la cosa giusta o spiegare ai miei figli cosa sarebbe giusto in quel momento, in questi casi solitamente semplifico così: ha buone probabilità di essere giusto ciò che fa bene al corpo e alla mente (individuali e collettive), tutto il resto oscilla fra l’ingiusto e l’inutile.
Qualche volta ci azzecco, altre no.
Cosa pensi dell’interruzione volontaria di gravidanza?
Un altro tema spinoso… per rispondere a questa domanda partirei da un termine che, insieme a speciale, ultimamente mi sembra il più usato (a sproposito…): empatia.
L’empatia è la capacità di sentire le emozioni dell’altro, escludendo se stessi e sospendendo il giudizio. Ecco, questo argomento manca totalmente di empatia.
Anche solo sospendendo il giudizio, ci si accorgerebbe di quante ripercussioni è gravata questa scelta difficilissima e molto dolorosa.
Penso che noi, in quanto società, abbiamo il compito di creare le condizioni migliori affinché le persone, le famiglie, possano nascere e crescere in buona salute. Perché, lo abbiamo detto prima, persone sane, famiglie sane, costituiscono una società sana.
Una società sana è una società con minore crimine, minori malattie, maggiore produttività, più felice, con più scarse probabilità di estinguersi.
Di fronte ad un tema come l’interruzione volontaria di gravidanza, la società, se non giudica, si volta altrove ed è una vera sconfitta.
Neppure una madre, come hai sottolineato, ha il controllo sulla vita. Neppure una madre che la vita la genera dentro di sé. La vita è un dono misterioso, che sfugge al potere umano. Quanto è difficile accettarlo?
Difficilissimo, tuttavia inevitabile.
Senza questa presa di coscienza non so se avrei trovato pace.
Accettare di non avere il controllo della propria esistenza eppure continuare a vivere vivendo, conservando i sogni, la speranza di poterli realizzare e il coraggio di avanzare verso di essi: tutto questo è scegliere di vivere senza limitarsi ad esistere.
Lasciaci con una bella immagine. Descrivi il momento in cui mamma e bambino si “incontrano” per la prima volta dopo il parto, dando origine ad una “storia d’amore infinita”.
Ai miei primi incontri non sono mai stata del tutto preparata!
Ma loro lo erano… tutti e tre.
Non mi è capitato di sentirmi subito la loro madre, ma immediatamente loro hanno cercato proprio me: il mio seno, l’abbraccio, l’orecchio sul cuore… così io ho imparato ad essere la loro mamma, mentre loro sapevano già chiaramente chi fossi e hanno fatto in modo che non avessi mai alcun dubbio.
Da allora cresciamo insieme, io sembro quella più vecchia, vagamente antiquata, come non manca di sottolineare la più grande di loro, eppure è lei ad indossare pantaloni a vita alta, dal fondo risvoltato e il malleolo esposto…
Grazie di essere stata mia ospite, del resto questa è casa nostra.
Grazie a te Emma, di cuore.
foto di copertina: Francesca Guerrini
https://www.facebook.com/Francescaguerrini22/
Titolo: “Nato Vivo”
Autore: Erika Zerbini
Edizione: PM, 2016
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