È il solito giovedì sera, c’è la solita festa latina. L’afoso caldo dei tropici sta a pennello con quelle note che sanno di appiccicoso. Il locale è affollato, rendendo tutto ancora più vischioso. Scivoloso. “Oso” scorre sensuale tra le gocce di sudore dei ballerini, chi più chi meno capace, ma tutti lì per divertirsi. La bachata è fatta per essere ballata in coppia, per stringersi le mani, le gambe, i corpi, le mani di lei che si mischiano alla traspirazione sul collo di lui, le dita di lui che si inzuppano sulla maglietta di lei. Schifoso. Non se ne cura nessuno, perché il ritmo giocoso di queste danze caraibiche ripaga di tutte le stille di bollore altrui sul nostro corpo. Tra un ballo e l’altro è d’obbligo tirare un sorso dal proprio bicchiere. “Orso”, qui si è aggiunta una “r” bloccando la viscidezza degli altri aggettivi, come  l’assaggio di una bibita ghiacciata o una boccata d’aria all’esterno della sala da ballo.

Sul pavimento sdruccioloso per i cocktail versati tra le risate e gli urti della gente impazzita dalla musica, si muovono veloci piedi che compiono passi incerti misti a quelli che sembrano volteggiare a pochi centimetri dal suolo, quasi come se nella bellezza della danza non ci fossero più differenze tra i bravi e non bravi, né confini nazionali, e Paesi agli antipodi si ritrovano ad intrecciare le proprie scarpe col tacchetto in nome di un unico ritmo nato su isole lontane.

Chissà se quella gente aveva mai immaginato di poter far intrecciare delle lunga dita d’ebano a quelle orientali, o se degli occhi azzurri come il cielo nella stagione secca si sarebbero mai fissati sui fianchi del Mediterraneo? Di sicuro hanno fatto un bel lavoro, portato la pace nel mondo più di qualsiasi desiderio di qualsiasi Miss Italia, almeno per un paio d’ore, almeno in un angolo del pianeta. Miracoloso.

Di questo ed altro parlavano quelle due lì al bancone, sorseggiando un mojito e tenendosi lontano da ogni “oso”, per rimanere nell’“orso” interrotto da una vibrazione di freschezza. 

Tra tutti i ballerini, uno più scatenato degli altri attrasse l’attenzione della ragazza con i capelli scuri, quella che masticava la cannuccia di carta del mojito mentre diceva “miracoloso”. Il risultato del ballo, non il ragazzo. Forse. Era rapita dai suoi passi fluidi e dalle giravolte della salsa, lui solo dalla salsa.

Ci volle del tempo prima che fermasse il proprio scalpitare sulle note tropicali per prendere respiro, per prendere al volo lo sguardo reso un po’ strabico dal mojito della ragazza con i capelli più scuri. L’altra, la rossa tinta con le gambe chilometriche, continuava a chiacchierare, a sorseggiare, a sudare, come tutti quelli che non ballavano in quella sala. La mano del danzatore si allungò verso la ragazza e lei accettò, aiutata dall’alcool a non provare vergogna per essere l’unica del locale, insieme all’amica dai capelli tinti, a non conoscere i passi di quel ballo impetuoso. Ciò non fu un problema per entrambi, perché presto si resero conto che la parte più interessante della sala da ballo non era ballare. Lasciando quel luogo focoso in cui ogni “s” si infilava tra due “o” come il sudore tra due corpi, andarono a rifugiarsi in un posto più asciutto, unendosi in un moto coordinato senza lasciare che una “s” si infiltrasse tra le due “o”.

Togliere una “s” e unire due “o”, specie se in una sala da ballo, può portare a grandi stravolgimenti nella vita. Quella che appare come una danza occasionale può diventare un’abitudine, e i due si ritrovano più spesso a intrecciare le proprie dita al sudore dell’altro, la pelle di due colori complementari si sfrega all’altra fino a mescolarsi nell’unica sfumatura dell’omogeneità. Il tempo afoso passa e si inizia ad essere vicini anche quando due fredde consonanti si insinuano come la rigidezza fuori della finestra.

La ragazza dai capelli scuri spesso ripensa a quel rimescolarsi di sguardi, a come se lui non si fosse voltato per un fugace secondo, tutta quella vita non sarebbe mai nata né continuata in un inverno freddo e affettuoso.

Si può ben immaginare come una storia apparsa in modo così fantasioso, un po’ mordace, abbia dato i suoi frutti: dal loro colore omogeneo ne nacque quello che bilanciava in sé entrambe le gradazioni e poteva essere l’uno e l’altro. Ballava anche lui, tra un passo fiducioso e un sorso freddo. A ogni ballo le dita si intrecciavano a mani nere, mani bianche, mani rosse e gialle; a ogni giravolta si mescolavano a uno sguardo blu, verde, nocciola, mandorla. Al ritmo furioso, la “s” scivolava tra le due “o”, alla ricerca di qualcuno con cui coordinare i propri passi. E avvenne che anche lui mescolò il proprio colore a quello altrui, per generare una nuova sfumatura che avrebbe portato avanti la tradizione, e la discendenza.

All’epoca, la fine del mondo era vicina, ma nessuno se ne curava. Non era pericoloso, dicevano.

Il caldo afoso che faceva ballare i ballerini, bruciava le foreste e gli alberi e il freddo era ancora lontano. Di alberi ne abbiamo molti, dicevano, curarsene è dispendioso. Lasciamo che ce ne siamo di meno, fare dei campi sulle ceneri è ben più lucroso. Le fiamme avviluppavano la foresta allo stesso ritmo delle note nelle sale da ballo, a volte più velocemente, a volte con più intimità, c’erano piroette e casquette. Solo quando le fiamme furono vicino ai locali e non si poteva più prendere una boccata corroborante tra un ballo e l’altro, qualcuno iniziò a pensare che quello stato era minaccioso.

Gli altri negarono, certamente quelli lassù non volevano che la gente smettesse di ballare per occuparsi di un incendio da poco. In fondo, la natura non sapeva mica danzare. Quella sera in particolare, il fuoco era arrivato fino al locale, e non in senso figurato. Il Paese era stato devastato, bruciato, logorato con la stessa durezza di una “t” alveolare che batte contro due vocali. Il poco ossigeno del bar venne consumato dal fuoco. Fu nel momento in cui il ballerino si voltava per accorgersi della ragazza con i capelli scuri che le fiamme divorarono musica e musicanti, danze e danzanti, distruggendo tutti i sogni della giovane in cui le due “o” si sarebbero unite per portare avanti la vita.

Per gli umani, giocare con il fuoco era stato rovinoso.

 

 

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