I rimedi cautelari nei casi di violenza domestica: prevenzione, protezione, punizione.
Articolo di Veronica Sicari
Nel nostro appuntamento mensile abbiamo deciso di affrontare un tema particolarmente importante, e che ci sta molto a cuore: la violenza domestica e i rimedi cosiddetti cautelari azionabili.
Il mese scorso ci siamo occupate di violenza economica perpetrata da parte dell’ex dopo la separazione o il divorzio: fenomeno odioso e più insidioso, ma capace di ledere la dignità della vittima al pari delle lesioni fisiche.
Questa volta, invece, preferiamo concentrarci sui possibili rimedi giuridici, penali e civilistici, che per la loro natura possono trovare applicazione, proteggendo le vittime, ancora prima di un’eventuale sentenza di condanna.
Ogni qualvolta la cronaca ci restituisce il racconto di violenze in danno delle donne, perpetrate spesso e volentieri da mariti, compagni o uomini con i quali avevano intessuto relazioni affettive, ci si interroga sull’efficacia delle norme che vorrebbero punire tali fenomeni.
Ci si chiede come sia possibile che, anche a fronte di vicende note alle forze dell’ordine o alla magistratura, si possa arrivare ad un tragico e fatale epilogo.
La morte della vittima, il più delle volte.
È una domanda alla quale non è semplice, né immediato fornire una risposta che sia innanzitutto esaustiva, nemmeno per delle operatrici del diritto.
Gli strumenti giuridici a disposizione sono diversi, attengono tanto al diritto civile, quanto a quello penale.
Ma la realtà è che la violenza sulle donne in generale, e quella domestica nello specifico, sono frutto di una impostazione culturale, del sistema patriarcale che si fa fatica ad eradicare dal nostro tessuto sociale.
Trattandosi di fenomeni strettamente legati alla “tradizione”, solo un processo di rieducazione è in grado di arginarli: è necessario impegnarsi nella lotta agli stereotipi, al sessismo che permea i diversi ambiti del nostro sistema.
È un’azione che richiede l’impegno di tutti, perché coinvolge o potrebbe coinvolgere ognuno di noi. Nessuno è immune alla violenza.
Solo un’azione mirata di educazione al rispetto, che si rivolga innanzitutto alle giovani e ai giovani, può produrre effetti a lungo termine.
Tuttavia, una rivoluzione culturale per radicarsi richiede tempo, diverse generazioni.
Molto è stato fatto, ma non è ancora sufficiente.
Nel frattempo, gli unici strumenti a disposizione sono quelli del diritto, anche se, per fenomeni come questo, la minaccia della sanzione non riesce a costituire vero e proprio deterrente.
Negli anni si sono susseguiti diversi interventi da parte del legislatore.
Sono state riformulate alcune ipotesi di reato nelle quali la violenza domestica tende a manifestarsi, introdotte nuove forme di tutele cautelari, ossia applicabili prima di una pronuncia di colpevolezza del reo, nuovi reati, aggravati i trattamenti sanzionatori di quelli esistenti.
L’ultimo intervento legislativo in materia è costituito dalla legge n. 69/2019, meglio nota come Codice Rosso, che ha – ancora una volta – riscritto la disciplina della materia, anche e soprattutto in ossequio alla Convenzione di Istanbul del 2011 (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica).
Certamente, l’introduzione di una disciplina cautelare apposita, attraverso la previsione di misure nuove e specifiche, non soltanto nell’ambito del diritto penale ma anche in quello civile, e che trovi applicazione nelle fasi anche precedenti al procedimento dinnanzi al giudice, ha comportato un notevole passo in avanti.
Nelle fasi immediatamente successive all’acquisizione della notizia di reato, attraverso la denuncia-querela da parte della vittima, infatti il pubblico ministero può chiedere, e il Giudice per le indagini preliminari disporre, qualora ritenga che ve ne siano i presupposti, delle misure restrittive nei confronti dell’indagato.
L’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p., introdotto nel 2001) prevede la possibilità che il presunto maltrattante convivente venga costretto ad abbandonare la casa nella quale vive la vittima.
Lo scopo della misura è evidentemente quello di evitare che il reato si ripeta.
La norma prevede la possibilità che il reo possa essere allontanato anche da luoghi diversi da quello della privata abitazione, come ad esempio il posto di lavoro della persona offesa.
Tuttavia, nel caso in cui la polizia giudiziaria intervenga in flagranza di taluni reati, come i maltrattamenti o gli atti persecutori, può disporre l’allontanamento in via urgente dalla casa familiare, dunque prima dell’intervento del magistrato, qualora ritenga che vi sia l’elevato rischio di reiterazione delle condotte (art. 384 c.p.p.).
Nelle ipotesi di allontanamento dalla casa familiare, inoltre, qualora la vittima sia economicamente dipendente dal reo, il giudice penale può disporre il pagamento di un assegno di mantenimento a carico di quest’ultimo.
Tale disposizione assume un’importantissima rilevanza in tutte quelle ipotesi nelle quali, oltre alle violenze fisiche o psicologiche in senso stretto, la vittima subisca anche violenze economiche, a causa della posizione di totale dipendenza dal proprio maltrattante.
Altra misura strettamente collegata alle ipotesi di violenze domestiche è quella del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282 ter c.p.p.), che prevede la possibilità di imporre al reo di non avvicinarsi alla vittima, stabilendo una distanza da rispettare.
Spesso il provvedimento in questione prevede anche il divieto di comunicare con la persona offesa, tanto oralmente, quanto per iscritto (e dunque anche attraverso mezzi tecnologici).
Il divieto di avvicinamento può proteggere anche familiari o congiunti della persona offesa, qualora vi sia il rischio che possano subire un pregiudizio dalle azioni dell’indagato.
La disciplina generale delle misure cautelari prevede che, alla violazione delle restrizioni imposte, il giudice possa aggravarle, prevedendo quella immediatamente più afflittiva.
Nello specifico caso delle misure dell’allontanamento dalla casa familiare e di quella del divieto di avvicinamento, il Codice Rosso ha previsto che la loro violazione non comporti soltanto l’aggravamento della misura: attraverso l’introduzione dell’art. 387 cod. pen., ha previsto una specifica (e nuova) fattispecie di reato.
Quindi, il soggetto sottoposto a misura, alla sua violazione non soltanto incorrerà in un eventuale aggravamento, ma verrà altresì considerato indagato in un ulteriore procedimento penale, con tutto ciò che da questo ne consegue, in termini di peggioramento della propria posizione in caso di condanna.
È di tutta evidenza che, a fronte di un procedimento penale, sorto dalla denuncia querela di atti penalmente rilevanti, misure restrittive e limitative della libertà del reo trovino la loro sede naturale.
Tuttavia, tenuto conto della materia, e del fatto che la violenza domestica trovi la sua sede di elezione nel rapporto affettivo, coniugale o meno che sia, tra la vittima e il carnefice, il legislatore ha ritenuto di introdurre delle misure para-penali nel procedimento civile, che dunque ben possono essere comminate dal magistrato della separazione o del divorzio, nell’ambito di quei procedimenti, ma anche a prescindere dalla loro instaurazione.
Si tratta degli ordini di protezione (artt. 342 bis e ter cod. civ.): il giudice civile può ordinare al coniuge o al convivente, che ha tenuto una condotta pregiudizievole, di allontanarsi dalla casa familiare, prescrivendo, qualora necessario, il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima. Inoltre, il giudice può prescrivere l’intervento dei servizi sociali o delle associazioni che abbiano lo scopo di accogliere donne, minori e altri soggetti vittime di violenza, nonché il pagamento, a carico del maltrattante, di un assegno periodico. Il provvedimento deve prevedere il termine della loro durata, che non può eccedere un anno: si tratta di misure prorogabili solo qualora persistano ragioni di protezione.
Si tratta, dunque, di una misura restrittiva della libertà personale del soggetto che la subisce, ma comminata in una sede diversa da quella penale, esperibile anche nel caso in cui i soggetti coinvolti non convivano, e tanto nel corso del procedimento di separazione quanto in quello di divorzio.
Il loro presupposto applicativo è la paventata lesione dell’integrità psicofisica della vittima, ossia fatti violenti dai quali siano derivate non insignificanti lesioni oppure situazioni di conflittualità tali da far pensare ad un possibile futuro e concreto pregiudizio, nonché tutti gli episodi di vulnus alla dignità dell’individuo, quando ad esempio ripetuti o quando abbiano causato una durata prolungata della sofferenza patita.
L’ordinamento giuridico ha, dunque, cercato di limitare le conseguenze dannose di condotte fortemente pregiudizievoli dell’integrità psicofisica delle vittime, introducendo anche istituti innovativi e sui generis(come gli ordini di protezione).
Tuttavia, tali strumenti, anche se applicabili prima di una sentenza di condanna, intervengono sempre e comunque in una fase patologica del rapporto, e dunque non posseggono una carica preventiva, ma punitiva e, per certi versi, conservativa.
La violenza domestica e di genere ha una matrice culturale. L’unico modo per eliminarla è la pedissequa applicazione delle quattro P previste dalla già citata Convenzione di Istanbul: prevenzione, protezione, perseguimento dei reati e politiche integrate.
Tra i quattro assi indicati dalla Convenzione, certamente la prevenzione è quello più rilevante. Ed è attuabile in un solo modo: attraverso la formazione e l’informazione.
Ben vengano dunque tutte le iniziative culturali, di singoli ed associazioni, nonché delle Istituzioni, che insegnino ad individuare gli indici sintomatici di una relazione abusante, e che informino sugli strumenti giuridici esistenti.
La protezione, la prevenzione e il perseguimento di questo tipo di reati non possono prescindere da un’azione congiunta, ancora lontana per dirsi attuata.