Come ti distruggo la sisterhood in due sillabe

a cura di Luisa Gasbarri

Ultimamente il peroismo mi colpisce per la sua democratica diffusione.

“Le donne sono svilite del patriarcato, però gli uomini ne sono più vittima ancora…”
“Le donne scarseggiano in politica, però la questione quote rosa…”
“L’immaginario censura le donne, però mostrare il mestruo in pubblicità…”
La verità si dimidia con un semplice però.

Ed è sempre più raro assistere oggi all’affermazione di una verità dura e pura: come se la convinzione fosse ritenuta troppo sfacciata, come se si dovesse per educata discrezione abbassare la voce, sminuire in qualche misura l’evidenza o la propria determinazione, anticipare complici l’obiezione in agguato.

Che il politicamente corretto mieta vittime ovunque è ormai noto, soprattutto nel mondo della comunicazione: la tensione critica, la speculazione lucida e spietata barattano quindi i loro spigoli per le amabili curve della benevolenza onnipervasiva.
L’ideologia è una bestemmia fuori moda, quasi ci si dovesse vergognare della coerenza di idee organizzate a prospettare una visione del mondo magari urticante, addirittura oppositiva.

Il coraggio di scendere nell’arena intanto evapora, il fronteggiare l’avversario a viso aperto si fa volgare. Il motivo? Un avversario non ce lo permettiamo più. Troppo scorretto farsi dei nemici nel terzo millennio.

Così inopportuno avercela con gli uomini, o con le altre donne, o con alieni migranti, meglio non fare incattivire alcun prossimo.

Naturale provocare antipatie, ma che scaturiscano spontaneamente, per inevitabile idiosincrasia: non andiamo a cercarcele esibendo idee eccessive, impopolari, tutte d’un pezzo.

E così noi donne abbiamo smesso d’incattivirci, di essere ‘contro’, d’incarnare l’alterità irriducibile, il limitare indomito, il sesso eternamente secondo sempre pronto a sbranare qualcuno, le menadi insegnano.

Siamo diventate nobilmente fagocitanti, inclusive, interstiziali, non più genere femminile motivatamente incazzato, ma transgenere indifferenziato, incline a patteggiare con tutti, capillarmente conquistato dalle ragioni di ognuno.

Più ecumeniche del papa, più trasversali dell’educazione civica a scuola.

“Le donne subiscono violenze, però la violenza femminile sui maschi…”
“Le donne nere sono storicamente defraudate, però se si pensa alle asiatiche…”
“Le donne si sobbarcano ancora buona parte del lavoro domestico, però anche gli uomini aiutano in casa…”

E così il focus di ogni discorso scivola via, si sposta, è sempre proiettato su un’altra faccia della medaglia che meglio merita d’essere lucidata, messa sotto la lente d’ingrandimento perché i mirabili dettagli si esibiscano nella loro interezza, mentre il sudato trofeo finisce sullo sfondo.

Sia chiaro: siamo donne, siamo accoglienti e inclusive per intima definizione, e questa è la nostra forza, nulla lo mette in dubbio. Ci scaviamo dentro pur di non tener fuori dalla nostra riflessione il problema ecologico, il problema postcoloniale, la povertà nel mondo, le altre specie, tutte le sfumature del gender.
È una scelta che ha un grande valore, un infinito valore.
Siamo però davvero sicure che l’elasticità teorica a tutti i costi, la morbida parcellizzazione delle istanze, il moltiplicarsi inesausto delle posizioni, il proliferare dei sottoinsiemi, le suddivisioni infinite dei mentali ovociti… non abbiano un prezzo?
Oh, come eravamo monolitiche e tranchant, quando scandivamo slogan irripetibili nominando l’utero, mentre oggi persino una vagina di gomma in tv ci sconcerta!

“Difendo i diritti delle donne, però non sono femminista!”
“Invece sono femminista, però di quale femminismo parliamo?”
“Naturalmente esco l’otto marzo, però questa giornata l’abolirei…”

Si smise di usare il bastone quando ci si accorse che sedurre con la carota era ben più persuasivo. E forse oggi il divide, compromesso agli occhi di tutti, meglio sostituirlo con un bel confunde.

Confunde et impera. Imparziale, innocente, inavvertito.
Stiamo soltanto attente a che il risultato non sia alla fine il medesimo.