Camilla di Lorenzo Bottone

Stavo per entrare in casa ma il mio sguardo si diresse a un porticato poco lontano da me. Lo avrei distolto prontamente se non mi fossi accorto di una persona che passeggiava, nevrotica.

“Luca, sono io”. L’estranea figura si era accorta di me. E mi aveva chiamato.

“Camilla?!?”, risposi palesemente sorpreso.

Infilò le mani in tasca e con due passi rapidi si trasferì sotto il mio ombrello. Quel gesto inaspettato fu come una gigante onda che mi travolse. Rischiando di farmi annegare.

Era la prima volta che avevo Camilla così vicina. Non ci eravamo incontrati tante volte e in nessuna occasione la distanza tra noi era stata così minima, quasi impercettibile, come quella mattina uggiosa. Al riparo, sotto lo stesso ombrello, mentre la pioggia scivolava via dai lati, spruzzandoci addosso.

Tra il silenzio e gli sguardi bassi, per l’imbarazzo di due persone che si conoscono poco, si distinguevano benissimo i nostri respiri. Caldi. Irregolari. Come irregolari erano i battiti dei nostri cuori. Avrei facilmente dimenticato di respirare se non fosse stato un esercizio autonomo del corpo. Contava altro in quel momento.

Trovai il coraggio per alzare gli occhi quel tanto che bastava per guardarla, mentre lei continuava a fissarsi le scarpe.

La pelle così chiara, pallida, richiamava alla mente le caratteristiche epidermiche delle popolazioni nordiche. Sembrava stessi ammirando una statua di gesso bianchissimo, dalle stupende sembianze. Fatta con lo scopo d’incantare i suoi osservatori. Avrei voluto toccarla, per accertarmi che fosse reale e non si trattasse di un miraggio, ma non trovai l’ulteriore slancio per accostarle le mani tremanti. E desistetti dall’intento.

Velocemente spostai la mia attenzione sul viso, fine e allungato, incorniciato da capelli di un castano scurissimo, interrotto soltanto da qualche punta molto più chiara che pareva addirittura bionda. Come fili d’oro raffinato. Impreziosito da due diamanti di rara magnificenza, appartenuti chissà a quale tesoro e poi trafugati e incastonati nella composizione di quella stupefacente visione.

Ora mi guardava anche lei con i suoi immensi occhi verdi diluiti d’azzurro, che li facevano così chiari, tanto da confondere sull’effettivo colore. Mari e foreste s’incontravano in quel piccolo spazio adibito a sogno. Venati di piccole striature rosse.

I miei occhi, di caratura nettamente inferiore, si beavano davanti a quello spettacolo grandioso a cui avevano assistito qualche giorno prima, e ricordavano bene quale potere d’ipnosi esercitassero. E si lasciarono ipnotizzare ancora, sottomettendosi all’unico comando che arrivava dalla testa fuori controllo: non smettere di guardare. Non ci fu da sforzarsi eccessivamente per eseguire le direttive dei piani superiori.

“Ma mi stai ascoltando?” Un dolce ronzio mi distolse dallo stato d’estasi in cui mi trovavo.

“Luca, stai bene?”, domandò preoccupata Camilla.

“Ehm, sì sì. Sto bene”, risposi a fatica, cercando di riprendermi.

“Mi ero distratto un attimo”.

Era trascorso più di un attimo. Ma non ci avevo fatto caso, dimenticando la cognizione del tempo. E un risolino apparve sulle rosse labbra carnose, modellate alla perfezione. Due dune di sabbia che si congiungevano ad incastro. Come pezzi di puzzle.

“Scusami. Non ti ho seguito. Dai, ripeti e ti ascolto”, e mi baciai l’indice e il dito medio in segno d’accordo. Per non distrarmi mi sarei dovuto concentrare, afferrando il senso delle parole di Camilla. E non sarebbe stato semplice. Era più facile abbandonarsi al travolgente profumo del suo corpo.

Smarrirsi e non lasciarsi trovare.

 

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