A cura di Chiara Minutillo

Era l’11 agosto 2007. In Inghilterra, nel Lancashire, Robert Maltby e Sophie Lancaster, una coppia di ventenni, passeggiavano in un parco, quando furono aggrediti da cinque adolescenti. Dopo 13 giorni di agonia, Sophie Lancaster morì in un letto d’ospedale a causa delle numerose ferite riportate alla testa nel tentativo di difendere il fidanzato.
I cinque aggressori furono identificati mentre si vantavano di aver compiuto una “buona azione”. La coppia era appassionata di cultura e musica gothic, passione che, nel loro caso come in quello di molti altri, si traduceva in un abbigliamento comunemente chiamato dark. Il movente dell’aggressione venne definito di natura pregiudiziale.
Tuttavia il caso non sconvolse l’opinione pubblica: al di fuori del territorio inglese, infatti, la notizia venne quasi totalmente taciuta.

Era l’estate del 2010. In Olanda, una band di stampo Symphonic metal e Alternative rock, terminava un tour che l’aveva vista in giro per il mondo a presentare l’album April Rain. Era ormai tempo di pensare ad un nuovo lavoro, a nuove canzoni. Il tastierista, Martijn Westerholt, proveniva da una band formata con il fratello Robert e la cognata Sharon den Adel, band particolarmente attenta, nelle sue produzioni, alle tematiche sociali e ambientali. Forse è questo retaggio a spingere Martijn a desiderare che la sua nuova band affronti prevalentemente temi caldi, impegnativi, a volte scomodi. I Delain si chiusero quindi in studio per portare alla luce nuovi sound.
Tra canzoni sull’amore, sull’impossibilità di comprendersi, sulla violenza “giustificata” dalla malattia psicologica, sulla vendetta e sulla fama e il potere, la band, in particolare la sua cantante, cominciò a impostare il testo per una canzone che avrebbe dovuto parlare di diversità.

Ricordo quando per la prima volta ho sentito parlare di questo caso, disse la vocalist Charlotte Wessels, riferendosi alla morte di Sophie Lancaster, in un’intervista successiva al rilascio dell’album We Are The Others. Trovai un video che ne parlava. Lo vidi e semplicemente mi misi a piangere, ma non feci nulla di pratico fino a che non cominciammo a lavorare alla canzone “We Are The Others”, prima di sapere che questo sarebbe stato il suo titolo. Ma l’idea basilare del testo era già lì, nella mia mente. Davo già per scontato che sarebbe stata una canzone dedicata all’essere gli altri, i diversi e ai sentimenti di amicizia e solidarietà; in un certo senso, all’essere orgoglioso di chiunque tu sia, anche quando ti discosti da ciò che è considerato la norma. Ma, dall’altro lato, volevo semplicemente una canzone che parlasse di accettare il diverso.

Il risultato fu una track dal sound tendente al pop rock elettronico, quasi totalmente mancante dei consueti riff di chitarra e batteria tipici del metal. Il titolo We Are The Others, scelto anche per l’album stesso, voleva essere una sorta di inno alla bellezza della diversità esistente negli essere umani.

L’inizio è scandito dal pianoforte di Westerholt, che, dolcemente, introduce una melodia fatta di suoni elettronici, batteria essenziale, chitarra e basso. La musica penetrante del rock lascia poi il posto alla voce a tratti melodica, a tratti graffiante, di Charlotte Wessels che si apre in una strofa interamente dedicata a Sophie Lancaster, con versi di notevole impatto emotivo (I’m walking but Sophie tonight, she lives in the air that I breath), carichi di rabbia (I can’t get it out of my mind how you were left to bleed), in cui ci si interroga sulle reali cause di quell’ingiustizia (Was it how dress? Or how you act), si cede all’incredulità (I can’t believe how they could act so violently, without regret) e si esprime solidarietà (We will not forget). La voce della cantante è un crescendo di note e emozioni, che sbocca nel ritornello, preceduto da un brevissimo riff di batteria, in cui le tastiere seguono Charlotte nel suo percorso vocale, tra altri e bassi, in quello che pare divenire un potente coro di protesta e affermazione di se stessi e della propria libertà di essere (We are the others, we are the cast outs, we’re the outsiders but you cant’hide us), un inno all’accoglienza, all’aiuto reciproco, all’amicizia (You’re no longer on your own. If you feel mistreated, torn and cheated, you are not alone). Il chorus si collega direttamente alla seconda strofa, dove la voce della Wessels aumenta notevolmente, assumendo toni più duri e determinati, mentre sostiene che la libertà e la vita siano come l’aria e le parole, nessuno ha il diritto di toglierle (as simple as air in your lungs, as simple as words on your lips, and no one should take that away, no one should have killed this), mostrando la forza che esiste dove c’è unità e l’orgoglio di seguire il proprio essere (now with our heads up high, we’ll carry on and carry out and we won’t let them get us down, wear us out, ’cause we are not alone). Il secondo ritornello è bruscamente interrotto dal pianoforte di Westerholt che introduce un bridge poetico e carico di umanità (Normal is not the norm, it’s just an uniform), un invito a essere se stessi, accettare l’apparentemente diverso, perché le differenze non esistono, siamo noi a crearle (Forget about the norms, take off your uniform, we are all beautiful). Quasi a sottolineare la necessità di tornare a guardare il mondo e gli altri con occhi diversi, più puri, la voce di Charlotte Wessels si addolcisce nuovamente e viene intervallata da un coro di bambini, che, ripetendo il titolo della canzone (We are the others), in questo specifico caso, simboleggia l‘innocenza di chi non bada all’esteriorità. Essere gli altri, in definitiva, non significa solo essere considerati differenti, ma anche saper vedere le cose diversamente dalla società che ci circonda e ci impone il suo punto di vista. La canzone, poi, si chiude con un’ultima interpretazione del ritornello.

Dal punto di vista interpretativo, risulta interessante il videoclip ufficiale rilasciato con il singolo l’11 settembre 2012, tre mesi dopo l’uscita dell’album con la casa discografica Roadrunners Records. All’interno del filmato, infatti, oltre alla band stessa, compaiono una serie di persone, tra cui alcuni musicisti Symphonic (Robert Westerholt e Sharon den Adel, ad esempio, che introducono i primi due versi della seconda strofa), diversi nel colore della pelle, nell’abbigliamento, nelle caratteristiche fisiche. Ognuno di loro tiene in mano un foglio su cui vi è scritta una caratteristica che, ipoteticamente, li renderebbe differenti dagli altri, foglio che poi viene lasciato andare, come se si volesse raffigurare la caduta di quel muro pregiudiziale. Il bridge è accompagnato, invece, da quelle stesse persone che ora mostrano fogli su cui non vi è più la diversità, ma ciò che li unisce. “I’m Sophie”, così si legge su quelle pagine che vogliono dimostrare solidarietà e al tempo stesso la voglia di cancellare il pregiudizio per favorire l’idea che siamo tutti uguali.

Perchè, in fondo, chi siamo noi per decidere cosa è normale e cosa no? Chi siamo per decidere cosa è diverso e cosa non lo è?

Perchè, in fondo, ciò che ci accomuna diventa la nostra forza e quello che ci separa è ciò che ci rende speciali.

Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo.
Tiziano Terzani