Kafka sulla spiaggia di Murakami

Voce all’Altrove

recensione di Cynthia Collu

 

kafka spiaggia

Tempo addietro Kakfa sulla spiaggia di Haruki Murakami, e non ne riportai una buona impressione.
Ho amato molto i racconti di Murakami, e non riuscivo a credere che fosse lo stesso scrittore che aveva scritto Kafka sulla spiaggia.
Siccome però ai tempi imperversava una ola sperticata sul suddetto libro, con annessi, da parte dei fan più sfegatati, epiteti di vari natura – avete di sicuro un’ottima immaginazione, pertanto non ve li riporto – a scapito dei lettori cercopitechi che non potevano comprendere le Vette del Sommo (beh, ok, sto esagerando, però di insulti me ne sono presi davvero), ho deciso di rileggere il suddetto romanzo.
Ecco. Riconfermo quanto scrissi, parola per parola. ma anche di più.
“Non bisogna toccare gli idoli: la doratura resta sulle dita”.
Flaubert

Il problema della cacca

L’altro giorno sono andata a vedere uno spettacolo con la regia di Ronconi: “Giusto la fine del mondo” di Lagarce. Si sa, Ronconi è sempre Ronconi, così come lo era Strehler, Fellini, e così come lo è la mamma.
Dopo un quarto d’ora non ne potevo già più.
Dietro di me un signore sbadigliava rumorosamente e con gusto. Dopo mezzora la mia situazione era disperata, la noia mortale.
Stavo valutando di andarmene alla fine del primo tempo (non sapevo, meschina, che non ci sarebbe stato intervallo) ma, mano a mano che i minuti passavano, la mia capacità di resistenza si affievoliva.
Me ne vado ORA, SUBITO, mi dicevo ai limiti della sopportazione.
Ogni tanto mi guardavo in giro e incontravo il mio stesso sguardo disperato negli occhi di chi, a sua volta, si guardava attorno alla ricerca di una via di fuga. Improvvisamente si è sentita una voce dire: “basta, sono stufa!” Una signora di mezza età si è alzata, ha preso giacca e borsa e ha ripetuto “basta, me ne vado, non ne posso più!”
Tic tic tic toc si è allontanata nel silenzio glaciale del pubblico e degli attori. Io, da vigliacca, ho continuato a seguire lo spettacolo, fino a quasi l’annientamento delle mie facoltà intellettive.

Racconto questo episodio perché mi è successo la stessa cosa leggendo Kafka sulla spiaggia. Una menata pazzesca, oserei dire se non temessi di offendere la sensibilità dei suoi estimatori (tra cui ci sono anch’io). Per tutto il libro ho arrancato disperatamente pregando in cuor mio che la fine arrivasse presto. Che noia e che barba! E che brutto libro!

 Avrei voluto mollarlo, trovare lo stesso coraggio della signora a teatro, ma mi dicevo che non era possibile che a me non piacesse un libro così elogiato, probabilmente non capivo, non sapevo intravedere, le metafore mi sfuggivano, il senso pure, le pagine invece purtroppo andavano al rallentatore, insomma, dovevo resistere.
Premetto che di Murakami ho letto i racconti (quelli dell’elefante scomparso) e mi sono piaciuti parecchio.
Poesia, capacità di straniamento, senso del vuoto, senso del nonsense della banalità, della quotidianità, e chi più ne ha più ne metta. Insomma, dei gran bei racconti.

Alla fine sono riuscita a finire Kafka sulla spiaggia.

Con molta onestà, ho trovato Kafka sulla spiaggia un libro irritante, scritto male, pieno di nodi irrisolti.

Perchè non leggere Kafka sulla spiaggia?

 1) Per prima cosa in Murakami mi ha irritato il suo continuo citare marche di vestiti di scarpe di stilografiche di occhiali e così via (il campo in cui Marukami si è sbizzarrito in questa pubblicità occulta è piuttosto vasto).

Ogni volta per esempio che la signora Saeki prende in mano la stilografica, Marukami deve ricordarci che è una Mont Blanc.
“La signora Saeki giocherellò con la stilografica Mont Blanc, La signora Saeki scrisse con la stilografica Mont Blanc, la signora Saeki prese la stilografica Mont Blanc”, ecc. (particolare evidentemente importantissimo, sia detto mai che il lettore pensi a un’altra marca, che ne so, una Waterman, ad esempio!).
Cosi, ogni volta che fa vestire un suo personaggio, deve citare la marca delle magliette (Ralph Lauren), delle scarpe da tennis (Adidas), eccetera eccetera eccetera.
Ora, da quando leggo e a maggior ragione da quando scrivo, so che se metto un particolare nel libro, è perché è importante ai fini della storia (non per niente Cechov disse che, se in un libro si parla di una pistola, quella prima o poi deve sparare); oppure lo uso per dare al mio personaggio un’impronta suggestiva che rimarrà impressa al lettore.
(Leggersi Dostoevskij al riguardo, in lui i dettagli sono preziosi).
Mi chiedo invece in questo romanzo che importanza abbia che le scarpe siano Adidas o Superga o quello che preferite voi. Hanno una qualche funzione nella storia? No. Danno un’impronta particolare al personaggio? No.
E allora, lasciamo questo modo di scrivere a Moccia, che almeno così manda in visibilio i teen-agers. C’è poi il problema della cacca. Per almeno tre volte un n’importe-quel personaggio dice che deve andare a fare la cacca. Un altro personaggio gli risponde “vai pure”. Il primo va, fa la cacca, torna, e tutto prosegue tranquillamente come prima. Voglio dire, questo particolare non ha nessuno scopo – né interesse narrativo -. Perché metterlo, quindi? Al signore scappava la cacca. E a noi che ce ne frega? O forse i giapponesi danno un altro significato a questa funzione corporale, significato che – da ignorante – io non colgo?

 2) Scritto male

Non c’è se non rarissimamente una frase che mi abbia colpita per la sua bellezza (al contrario dei racconti, c.s.). Una scrittura sciatta, banale, ripetitiva. I personaggi (tutti!) annuiscono e scrollano la testa come minimo un centinaio di volte durante il romanzo.
Si preparano il caffè, prendono la tazza tra le mani, la posano, la riprendono. Aprono il frigorifero, prendono questo e quello, mangiano questo e quell’altro.
Descrizioni noiose, del tutto prive di senso narrativo. Sono gesti assolutamente riempitivi, nel senso che nulla servono al narrare e allo svolgimento della storia, ma solo a riempire gli spazi bianchi delle pagine.
Se provate a togliere tutte queste descrizioni inutili, il romanzo non perde nulla, anzi, ci guadagna.
I dialoghi, poi, sono stati la cosa più terrificante che mi sono dovuta sorbire. Del tutto inverosimili (nel senso di poco credibili), spatafiate atte forse più a fare pseudo-cultura (sulla musica, sulla letteratura, sui greci, ecc.) che altro.
E non si parla neanche di digressioni (magari!). Quelle appartengono ai geni letterari dell’800, e come tali hanno un senso nell’economia dei loro romanzi. Ma in Murakami? Eh sì che conosce bene (li ha tradotti) gli autori americani, maestri nei dialoghi!
E sì che dovrebbe sapere meglio di tanti altri che il dialogo deve essere “diagonale”, aprire cioè varie possibilità alle risposte e nel contempo portare avanti la narrazione. Invece lui li scrive come non farebbe neanche un principiante.
Es. domanda: “Vuoi venire con me?”; risposta: “Sì, voglio venire con te.” Ma quando mai i dialoghi si fanno così! Sarebbe bastato un “Certo!”, e tutto sarebbe stato più pulito, più giusto, più credibile.

 3) Nodi irrisolti

Ritorniamo all’esempio della pistola. Se la metto in un capitolo, prima o poi devo farla sparare. Di solito quello che il lettore legge è solo “il picco” di un iceberg che l’autore invece conosce bene.
Questo iceberg è costituito da tutte le informazioni, le ricerche, le domande che l’autore si è posto prima di scrivere il romanzo. Insomma, gli deve essere ben chiara la struttura, e mentre piazza dei fili pendenti qua e là, sa che alla fine dovrà per forza allacciarli tutti, perché il lettore, in quanto lettore accorto, è questo che vuole da lui.
Orbene, non ho capito perché cavolo il padre ha lanciato la maledizione a Tamura. Solo perché è cattivissimo? No, grazie, troppo debole come motivo. Che cosa gli ha combinato di così terribile il povero piccino? Non è dato saperlo.
Inoltre non ho assolutamente capito – e questo è ben più grave! – perché Tamura si ritrova con la maglietta sporca di sangue (e da qui pensa di aver ucciso il padre), particolare che viene citato più volte, mettendo delle aspettative nel lettore, e che poi sparisce nel nulla.
Beh? Perché questo filo è stato messo per poi lasciarlo penzoloni? Sappiamo che Tamura non ha ucciso il padre (sbugiardando clamorosamente la maledizione, che mi pare tanto un misero pretesto per mandare a letto Tamura con Saeki.
E, in più, che c’entra “violerai tua sorella?” Sakura NON è la sorella di Tamura!), e quindi? Come mai Tamura si ritrova con la maglietta sporca? (Chissà, forse ha schiacciato una sanguisuga, di quelle cadute dal cielo…).
Altra cosa, il bellissimo racconto dell’inizio, (uno dei pochi che mi è piaciuto) quello dei bambini che cadono addormentati nella radura dopo che gli è passato sulla testa la luce famosa scambiata per un aereo.
Ebbene, prima o poi mi aspettavo di trovare il nesso tra questa luce e la pietra dell’entrata. Buio totale.
Che cosa ha procurato il sonno comatoso ai bambini? Alieni? I cattivi americani?
Magari i russi, che sono sempre i cattivi per eccellenza? Ahimé, non lo saprò mai. Infine quella creatura vischiosa che Oshino prende a randellate.
Chi è? O meglio, che cos’è? perché vuole entrare nella pietra? Perché se ci riesce succederanno cose terribili? E che cosa? Anche questo non è dato saperlo.

 4) I personaggi

A parte Nakata, gli altri sono degli stereotipi al limite della barzelletta.
Del tutto poco credibili (non ho detto inverosimili, perché Nakata lo è, ma regge benissimo il suo ruolo!) come il padre di Tamura, già citato, che chissà perché ha quei poteri diabolici (altro nodo pendente), come Saeki, figura insignificante, così come ho trovato inconsistente e quasi ridicolo il suo andare a letto con Tamura (tra i brani più brutti che io abbia letto!), come lo stesso Tamura, a mio avviso letterariamente mal strutturato, e così via. Si salva Oshima, decisamente riuscito.
 5) Molto ci sarebbe ancora da dire, ma qui mi fermo. Chiedo scusa agli estimatori di Murakami (me compresa) e a questo punto oso esternare il dubbio che mi è venuto: che Marukami si sia servito di un ghost-writer? 🙂

 

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Sinossi

Un ragazzo di quindici anni, maturo e determinato come un adulto, e un vecchio con l’ingenuità e il candore di un bambino, si allontanano dallo stesso quartiere di Tokyo diretti allo stesso luogo, Takamatsu, nel Sud del Giappone.

Il ragazzo, che ha scelto come pseudonimo Kafka, è in fuga dal padre, uno scultore geniale e satanico, e dalla sua profezia, che riecheggia quella di Edipo.

Il vecchio, Nakata, fugge invece dalla scena di un delitto sconvolgente nel quale è stato coinvolto contro la sua volontà.

Abbandonata la sua vita tranquilla e fantastica, fatta di piccole abitudini quotidiane e rallegrata da animate conversazioni con i gatti, dei quali parla e capisce la lingua, parte per il Sud.

Nel corso del viaggio, Nakata scopre di essere chiamato a svolgere un compito, anche a prezzo della propria vita.

Seguendo percorsi paralleli, che non tarderanno a sovrapporsi, il vecchio e il ragazzo avanzano nella nebbia dell’incomprensibile schivando numerosi ostacoli, ognuno proteso verso un obiettivo che ignora ma che rappresenterà il compimento del proprio destino.

Diversi personaggi affiancano i due protagonisti: Hoshino, un giovane camionista di irresistibile simpatia; l’affascinante signora Saeki, ferma nel ricordo di un passato lontano; Òshima, l’androgino custode di una biblioteca; una splendida prostituta che fa sesso citando Hegel; e poi i gatti, che sovente rubano la scena agli umani.

E infine Kafka. “Uno spirito solitario che vaga lungo la riva dell’assurdo”.

 

Titolo: Kakfa sulla spiaggia
Autore: Haruki Murakami
Edizione: Einaudi, 2013