SELENE

CAPITOLO PRIMO
Si rigirò nel letto, in una condizione semionirica “E’ domenica” pensò speranzosa. Ricevette dalla sveglia una sonora smentita. Sobbalzò e scese dal letto, come se una molla invisibile fosse scattata dietro alla sua schiena: la sua velocità nel passare dal sonno ad uno stato di veglia quasi perfetto era sorprendente. Si diresse in bagno e iniziò a prepararsi. Sotto la doccia progettava già le prime azioni della giornata. Il pensiero dominante era: “Bisogna che mi sbrighi…”
La vita frenetica aveva risucchiato nei propri vortici Selene suo malgrado. Ne era talmente esasperata che il suo più grande desiderio era diventato andare a vivere in alta montagna, magari a pascolare le vacche, immersa nella pace di una natura ancora viva e presente… pensava a cime verdi carezzate dal vento, ai profumi dei fiori che si spandono nell’aria, quando giunse l’autobus ed ella si ritrovò schiacciata tra gente sgomitante, tra cui non mancavano alcuni che avevano un concetto un po’ vago dell’igiene personale. “Come preferirei l’odore del letame” sospirò reggendosi forte ad un apposito sostegno.
Alla fine del quotidiano viaggio attraverso il girone dantesco del traffico cittadino, scese alla sua fermata e salì in ufficio.
– Buongiorno, signorina! – L’accolse il portiere con il suo solito sorriso mellifluo; – Mi duole informarla che purtroppo oggi l’ascensore è fuori servizio…
Rassegnata, cominciò a salire le scale, facendo risuonare il rumore degli scomodi tacchi alti; non aveva proprio il passo di una ballerina di danza classica e poi l’essere seccata accentuava la pesantezza della sua andatura. “Dovresti lavorarci tu al settimo piano, dannato ciccione! Così forse perderesti qualche etto e un po’ di boria!” Rimuginò, pestando gli scalini.
Il portinaio antipatico era solo la punta dell’iceberg dei suoi problemi. Il lavoro sottopagato e frustrante in quell’ufficio di assicurazioni era la parte sommersa. Odiava vedere ogni giorno i giochi truffaldini compiuti ai danni di poveracci che avevano sempre pagato una polizza per parare i guai, ma che quando i guai stessi arrivavano ricevevano una marea di rinvii e subivano intrallazzi vari da parte dei suoi capi, il cui primo scopo nella vita era il sottrarsi al giusto pagamento dei sacrosanti risarcimenti, o per lo meno smagrirli fino all’osso o rimandarli alle calende greche.
– Ancora grazie che hai trovato quell’impiego, coi tempi che corrono! – Questa era la litania con cui sua madre tagliava corto alle sue lamentele – E poi, con il tuo titolo di studio… – proseguiva l’anziana donna con un sospiro – Meno male che mio fratello conosceva uno dei soci! – L’infame titolo di studio corrispondeva ad una laurea in filosofia, accolta con freddezza dalla genitrice che aveva auspicato l’iscrizione della figlia a facoltà che potevano aprire la via ad una carriera tangibile, come giurisprudenza o economia e commercio. Ma l’ingenua sognatrice si era smarrita nel platonico mondo delle idee, aveva subìto il fascino della follia di Nietzsche per cadere nelle elucubrazioni accidiose degli esistenzialisti francesi; il suo amore per le divagazioni speculative, ma anche per la letteratura cervellotica e la poesia maledetta l’avevano condotta verso il baratro di una laurea in disoccupazione cronica, da cui si era miracolosamente salvata grazie al demiurgico intervento dello zio materno.
Inutile dire che la lettura dei suoi eventi esistenziali e del suo rio destino fornita dalla madre si discostava sub specie aeternitatis da quella della rêveuse enfante, così dannatamente ostinata da ritenersi tuttavia nel giusto e da anelare in ogni istante della sua vita di mandare il maledetto impiego a farsi fottere.
In una di quelle grigie ore lavorative, così lente da far sembrare celeri le giornate dei penitenti dell’antipurgatorio, battendo al computer con il consueto disgusto frasi burocratiche gabbaingenui, Selene si imbatté nel casus belli che avrebbe finalmente conferito una svolta alla sua vita.
Un tizio aveva stipulato un’assicurazione sulla vita di cui era beneficiaria la moglie. Una notte in cui pioveva a dirotto, il poveraccio aveva avuto un terribile incidente e ci aveva lasciato la pelle. La povera vedova, rimasta sola con due figli piccoli, avrebbe dovuto ricevere almeno l’amara consolazione di incassare il premio, onde tirare avanti con i bambini; ma mediante una ricostruzione fantasiosa, avvalorata dal cattivo andamento degli affari dell’uomo, gli infami capi di Selene avevano fatto passare l’incidente per suicidio, sostenendo che il defunto cliente si sarebbe schiantato a bella posta contro un tir; in caso di suicidio, l’assicurazione non paga…
“Ecco un’altra vittima di Arpia, Bastardo Integrale e Succhiasangue” commentò mentalmente Selene, servendosi dei soprannomi con cui designava i propri datori di lavoro. “E’ troppo infame, io questo rapporto non posso proprio scriverlo, chi se ne sbatte di quello che succederà!”. Con uno dei suoi scatti fulminei, che coinvolgevano all’unisono il corpo e la mente, la ragazza si alzò dalla sedia e si diresse verso l’ufficio della dirigenza.
Pensa prima di parlare, conta fino a cento prima di fare qualcosa di cui potresti pentirti… perle della saggezza popolare che Selene non aveva mai saputo fare proprie. Entrò senza bussare. Bastardo Integrale sobbalzò sulla propria poltrona di pelle umana, ad Arpia andò di traverso il caffè per l’inaudita sorpresa mentre Succhiasangue cercò inutilmente di raggelarla con uno dei suoi consueti sguardi vampireschi; tutto inutile, Selene era un fiume in piena di improperi, vomitò addosso ai tre rifiuti umani tutto il disgusto, i rospi ingoiati in un anno di frustrante ed avvilente lavoro, le ingiustizie mai metabolizzate che le rodevano l’anima e l’apparato digerente (pensò vagamente che un licenziamento era pur sempre meglio di una gastrite cronica…). Concluse l’arringa con frasi del tipo: – La maggioranza di quelli che sono rinchiusi a Marassi a vostro confronto sono dei benefattori dell’umanità – e – le tizie di Corso Perrone sono sicuramente meno troie di lei – aggiungendo un ovvio ed ineluttabile – Mi licenzio! – La porta sbattuta sarà anche risultata un finale banalmente scontato, ma come rinunciarvi?

Le filosofie, i pensieri umani nati in seno a qualsivoglia cultura sono come la tavolozza di un pittore: possono finire tra le mani di Raffaello o Van Gogh, oppure del peggior imbrattatele che sia mai comparso sul globo terracqueo; sono colori con cui dipingere la propria visione della realtà e sta solo all’abilità o all’imperizia dell’artista l’esito che deve scaturirne. Anche i colori più violenti, le tinte forti delle idee, danno frutti ben differenti a seconda di come ognuno le rielabori: sotto questo aspetto Selene era un’espressionista della speculazione. La violenza concettuale le era sempre servita per aprire gli occhi, non l’aveva mai abbagliata né tramortita, anzi era stata il suo nutrimento più proficuo. Leggere Lautréamont o Bukowski può apparire sconveniente per una fanciulla, ma le scosse ricevute l’avevano lanciata verso l’alto, Selene aveva appreso a vedere la luce risplendente dietro un’apparenza di depravazione. Se qualcuno vi colpisce con un pugno o vi vibra una coltellata, va da sé che non può che farvi del male; ma sul piano spirituale le cose non funzionano così, neppure obbediscono alla legge del tutto o del nulla: ogni spirito le coglie secondo categorie proprie ed il seme germina in modo differente a seconda di dove vada ad attecchire. Nella mente feconda di Selene tutto ciò aveva sviluppato una sensibilità acuta, una capacità empatica sconosciute a chi si ritiene dotato di acuta sensibilità solo perché si commuove leggendo il Cuore di De Amicis.
Con l’animo ancora puro dei suoi ventisei anni, Selene percorreva le vie del centro sentendosi leggera come una farfalla (nonostante il suo solito passo da bersagliera). Che avrebbe detto sua madre? Lo sapeva senza neppure doverla ascoltare. L’altarino profanato dello zio procacciatore di lavori di merda le sarebbe stato posto innanzi come il più bieco sacrilegio. Aveva stampato in mente l’indirizzo di quella povera donna truffata dai suoi ex capi: saltò sul primo autobus che andava nella giusta direzione, con il proposito di portarle la propria economicamente inutile, ma forse moralmente ben accetta solidarietà.

Il neonato piangeva quasi sempre, probabilmente avvertiva l’angoscia della madre; ancora doveva iniziare a vivere e già intuiva tutta l’amarezza e l’ingiustizia dell’umana esistenza. La bambina aveva sei anni, i capelli castani trattenuti da un nastro rosa e due occhioni scuri troppo profondi per i suoi pochi anni, che sembravano riflettere la rassegnata saggezza di una donna matura che da tempo dà del tu alla sofferenza. Lasciò il suo quaderno di prima elementare abbandonato sul tavolino e si avvicinò alla culla del piccolo con due peluches in mano, cominciando un piccolo spettacolo per farlo calmare. La donna fece accomodare Selene sul divano e andò in cucina per prepararle un caffè. Trascinava i piedi nelle pantofole e teneva le spalle un po’ ricurve, come se avesse da sorreggere un peso greve di cui non poteva sbarazzarsi. Aveva gli occhi infossati ed un’espressione abbattuta, che a Selene apparve nel contempo incredula e sbigottita. “Gli ho detto troppo poco” pensò riferendosi agli ex datori di lavoro “E sono stata loro complice troppo a lungo”. Il borbottio della caffettiera si accompagnava all’aroma della bevanda che si spandeva nell’aria. Un evento così quotidiano, così normale in quella casa sconquassata dal lutto e dall’insulto al dolore di una famiglia con un domani del tutto incerto. Selene pensò che anche il suo futuro era incerto, ma che almeno ella doveva pensare solo a sé stessa, mentre quella poveretta aveva due bambini da crescere. La donna le porse la tazzina ed uno sguardo interrogativo: perché era venuta a farle visita? Quando le aveva aperto la porta, Selene si era presentata come “ex dipendente di quella schifosa assicurazione, appena licenziatasi”; che poteva volere quella ragazza da lei?
Il piccolo si era calmato e giocava con uno dei peluches che la sorella gli aveva lasciato; la bambina con gli occhi abissali sedette accanto alla madre, scalando il divano per riuscire a sedervisi composta. Dalla sua poltroncina Selene le osservava, come se assistesse all’epilogo di una tragedia borghese. In poche, coincise ma esplicative parole la ragazza raccontò alla donna di come fosse venuta a conoscenza del suo dramma ed il suo moto di sdegno, che l’aveva spinta a lasciare l’ufficio.
– Ma cara signorina – rispose la donna con un filo di voce – Non che io non apprezzi la sua sensibilità d’animo, ma a chi può giovare il suo gesto? Ora anche lei è senza lavoro, con i tempi che corrono e tutte le difficoltà per voi giovani nel trovare un impiego. Sicuramente quello che lei ha fatto non indurrà i suoi ex principali a ritornare sui propri passi…
Era tutto dannatamente vero. Come sopportarlo? Come reagire? Cosa fare?
E Selene fece l’unica cosa che poteva e sapeva fare. Scrisse. Si fece raccontare dalla donna tutti i particolari di quel che le era successo, la sua storia d’amore con il marito, la nascita dei figli, i momenti di gioia e quelli di tensione. Scrisse e raccontò. Denunciò l’inganno di cui la famiglia era vittima, tutti i particolari della pratica che le erano rimasti impressi a fuoco nella memoria, per quanto li avesse letti una sola volta.
Scrisse ed inviò il manoscritto ai giornali, alle emittenti televisive, a chiunque fosse in grado di diffondere la notizia. Insomma, fece un gran casino. Lo zio le tolse il saluto e sua madre non la cacciò di casa solo perché un pomeriggio vide quella donna raccontare i propri guai in televisione, seduta accanto alla sua conduttrice preferita che le rivolgeva il suo miglior sguardo compassionevole.
– Mia figlia, è stata mia figlia a far emergere il fattaccio! – ripeteva alle vicine e alle amiche. Ma Selene non comparve in nessun notiziario. Aveva messo il suo scritto nelle mani di giornalisti che speculavano sulle disgrazie altrui per mezz’ora di trasmissione strappalacrime. La donna la ringraziò pubblicamente, ma quello fu l’unico particolare dell’intera vicenda che venne del tutto ignorato. A Selene rimase la sua coscienza pura, la soddisfazione di aver aiutato la donna e la cruda consapevolezza di esserselo ancora una volta preso in culo.
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SABINA GRANOTTI

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