“Desaparecida” di Maria Luisa Malerba
“Se sei nato tra il 1975 e il 1980 e hai dei dubbi sulle tue origini, consulta la lista dei nipoti che stiamo cercando e dei casi risolti al momento attuale.”Erano diverse sere, ormai, che Laura tornava a casa da lavoro, sedeva alla sua scrivania con una tisana calda e lasciava che le sue mani la dirigessero alla seguente pagina web: https://abuelas.org.ar
Si trattava della pagina web delle nonne della “Plaza de Mayo”, alla ricerca dei figli e dei nipoti scomparsi a seguito della dittatura militare argentina di quegli anni. Poi, aprì il suo diario e vi scrisse:
4 ottobre 2009
Forse dovrei vedere un bravo psicologo. Continuo a nutrire dubbi sulla mia identità. Amo la mia famiglia ma è da quando sono piccola che ho la sensazione che mi occultino qualcosa. Qualche giorno fa, mia madre è venuta in ospedale per una semplice visita di controllo e la mammografia. Dice che si fida del personale del mio ospedale e che è orgogliosa di me. L’ha visitata la mia collega Esther, io ero con un’altra paziente.
Ora mia madre è in menopausa ma so che, dopo aver avuto me, è diventata infertile, questa è la ragione per cui sono figlia unica. In preda alla curiosità, sono andata a sbirciare la sua cartella clinica, che mi ha lasciata perplessa: ha le tube di Falloppio completamente ostruite e presenta forti anomalie uterine che sembrerebbero congenite. Come diavolo avrà fatto ad avermi?
Sono alta, slanciata, con occhi azzurri e capelli biondi. Nessuno è così in famiglia. Da chi mai avrò preso questa piccola voglia che ho sul braccio? Gli studi che ho fatto dovrebbero suggerirmi che esistono i geni recessivi e che potrei aver ereditato le mie caratteristiche somatiche da qualche nonno o bisnonno… ma le foto di famiglia non mi convincono.
E poi, perché i miei evitano di mostrarmi gli album con le foto antiche? Ci sono poche foto relative all’Argentina in casa dei miei…sarà che vogliono dimenticare gli anni duri della dittatura?
Perché, in tutti questi anni, non ci siamo mai tornati, neanche per le vacanze? Eppure di viaggi attorno al mondo ne abbiamo fatti!
Stanca, spense il laptop, accostò la tenda della sua finestra e andò a dormire.
Laura Ribera Calvo aveva trent’anni ed era una bravissima ginecologa presso l’Ospedale “Vall D’Hebron” di Barcellona. La vita sembrava averle aveva donato tutto ciò che si potesse desiderare: bellezza, intelligenza, fascino, amici, corteggiatori, una famiglia benestante, un bel lavoro e una città bellissima, quella in cui viveva.
Da qualche anno abitava da sola in un bilocale che suo padre, l’ingegnere Rodolfo Ribera, aveva comprato per lei in un quartiere residenziale per famiglie ricche.
Rodolfo era stato un padre freddo e severo ma anche molto premuroso, voleva che sua figlia e sua moglie, la signora Clara Rivera, vivessero come regine.
I suoi genitori erano argentini e emigrarono a Barcellona nel 1983, quando Laura aveva solo quattro anni. Lei aveva vissuto un’infanzia felice e dell’Argentina non aveva nessun ricordo perché era troppo piccola.
Non aveva mai conosciuto i suoi nonni, perché quelli paterni erano morti prima della sua nascita e quelli materni erano deceduti mentre lei già viveva a Barcellona. Aveva parlato con loro solo per telefono in circostanze sporadiche. L’unico parente che aveva conosciuto era lo zio Gonzalo, il fratello maggiore di suo padre, un ex colonnello che, una volta ogni due o tre anni, li andava a trovare a Barcellona.
Riempiva la bambina di regali e le faceva molte feste. Laura era sempre stata un po’ intimidita da quest’uomo alto e e maestoso che incuteva timore e rispetto. Ma, da piccola, gli piacevano le sue visite, perché significavano bambole, giochi e dolci a volontà. Lo zio non badava a spese per la nipote.
Poi, quando Laura compì 15 anni, la informarono che zio Gonzalo non sarebbe più tornato e che si era spento lentamente per un cancro ai polmoni. Ogni tanto, le tornava in mente quest’uomo baffuto e austero che le voleva così tanto bene. Non aveva neanche avuto la possibilità di dirgli addio…I suoi genitori avrebbero dovuto dirle che era malato, almeno gli avrebbe fatto una telefonata di addio prima che morisse.
16 ottobre 2009
Oggi ho pranzato al “Botafumeiro” con i miei genitori. Come al solito, mio padre ha scelto uno dei ristoranti più esclusivi della città per festeggiare la mia promozione nel gruppo di ricerca dell’ospedale.
Ad un tratto, durante il pranzo, gli ho chiesto: “Papà, ho una curiosità. Zio Gonzalo era un ex colonnello, giusto? Lavorava con i militari argentini durante la dittatura? “. Mio padre ha avuto una reazione alquanto rara.
Dapprima gli è andata di traverso la zuppa di aragosta, poi si è ricomposto e, con controllo, mi ha risposto: “Laura, tuo zio era una persona onesta che serviva lo Stato. Durante la dittatura, se non stavi con i militari, eri un uomo morto, è normale che lavorasse con loro. Ma lui si è sempre comportato bene. Figlia mia, non farci ricordare quei brutti momenti soprattutto in una giornata carina come questa. Sai che devi evitare l’argomento, altrimenti tua madre si agita”.
Mia madre sembrava in preda all’ansia…era molto angosciata.
Capisco che abbiano brutti ricordi ma continuo a pensare che mi nascondano qualcosa. Non sarà quello che penso e che non voglio dire neanche a me stessa? Perché questo dubbio mi divora l’anima?
Cercare di scoprire una verità sempre taciuta e che non si è mai voluto sapere è un grande atto di coraggio, soprattutto per una persona come Laura, a cui non mancava assolutamente niente.
Decise di contattare le nonne della “Plaza de Mayo” attraverso la loro pagina web, poi prese tutti i giorni di ferie che le restavano e prenotò un aereo per Buenos Aires.
Sarebbe partita il mese successivo e ai suoi genitori raccontò che, per festeggiare la promozione e d’accordo col capo reparto dell’ospedale, sarebbe andata in Tailandia con un’amica per diversi giorni, quasi un mese.
Giunta a Buenos Aires, Laura si recò nella sede dell’Associazione delle nonne della Plaza de Mayo. Le fecero un colloquio e poi l’accompagnarono a un laboratorio di analisi, dove le fecero un prelievo di sangue. Diversi giorni dopo, la presidentessa dell’Associazione la richiamò d’urgenza al Centro e la invitò a prendere posto nel suo ufficio privato.<
“Laura, dalle analisi del DNA, traspare chiaramente che i tuoi sospetti sono fondati. Sei la “nieta desaparecida” numero 121. Sei la figlia di Ernesto Rodríguez e Anna Videla, due giovani studenti della facoltà di architettura che furono arrestati dai militari il 6 giugno 1979. Avevano venticinque anni. Furono considerati sovversivi per aver manifestato due volte contro il regime nelle aulette universitarie. Vuoi che continui o preferisci ascoltare il resto della storia in un altro momento? Te la senti?”
“Quando i tuoi genitori furono arrestati, tua madre era incinta di sette mesi. Furono torturati, anche lei, nonostante la gravidanza, e mantenuti in vita fino al giorno della tua nascita, il 19 agosto 1979. Il tuo vero nome è Carolina Rodríguez e, appena nata, ti strapparono dal seno di tua madre. I tuoi genitori vennero fucilati dal colonnello Gonzalo Ribera, ora in carcere da anni. Tua nonna materna, Cristina de Fontana, continua a cercarti dal lontano 1979. Lei è stata “fortunata” perché ha trovato il cadavere di sua figlia su cui piangere e ha potuto seppellirla. A tua nonna raccontarono che eri morta, ma lei non ha mai creduto a questa storia. Sapeva che i bebè venivano dati, sotto lauto compenso, alle istituzioni ecclesiastiche o alle famiglie che non potevano avere figli. A volte, questi neonati rimanevano nelle famiglie degli stessi militari che avevano assassinato i loro genitori naturali”.
Il telefono squillò. Trascorsero attimi di gran confusione in cui Laura pensava che sarebbe svenuta da un momento all’altro.
Poi, la presidentessa interruppe la chiamata e si rivolse a lei: “Se vuoi, tra poche ore potresti conoscere tua nonna. È stata avvisata, è sotto shock, come ti puoi immaginare”.
Qualche ora dopo, una signora anziana e snella con un bastone, fece irruzione in quella stessa stanza e la fissò attonita per alcuni istanti.
Fu Laura a decidere di rompere il ghiaccio e balbettò le parole seguenti: “Io… sono qui perché ho sempre nutrito sospetti su… sono spagnola… sono venuta qui da Barcellona… così ho fatto il test del DNA e…”.
“Anche se hai un accento diverso dal mio e vieni da fuori, non ho bisogno del test del DNA per riconoscere che sei mia nipote! Sei identica a tua madre! Bambina, ti ho cercata per una vita intera!”
Si slanciò verso sua nipote con impeto, la toccò come se vedesse un morto resuscitato e poi l’accolse tra le sue braccia: “Non potevo morire senza abbracciarti per la prima volta!”
In singhiozzi, Cristina de Fontana, che aveva i suoi stessi occhi e una piccola voglia sul braccio destro, viveva le ore più felici dei suoi ottant’anni. “Dobbiamo raccontarci una vita intera”, le disse la povera donna in lacrime.
Qualche giorno dopo, il colonnello Gonzalo Ribera, da anni in carcere, ricevette una visita inaspettata. Pietrificato, si limitò ad ascoltare:
“Ciao, “zio”. Mi riconosci? Ne è passato di tempo, vero? Sai, ti credevo morto di cancro ai polmoni e invece ti ritrovo qui dopo quindici anni! Ti hanno dato la giusta punizione finalmente, spero che abbiano buttato la chiave di questa cella per sempre”.
“Che vuoi, Laura?”
“Laura, o forse, dovresti dire Carolina? Voglio che mi racconti come hai ucciso mia madre e mio padre. Ora!” Tuonò.
“Ricordo tua madre, sei bella come lei. Proteggeva la sua pancia e, poche ore dopo la tua nascita, fu difficile staccarti da lei. Era straziata dal dolore, così la uccisi con una fucilata sull’addome e misi fine alle sue sofferenze. Poi uccisi tuo padre con un colpo alla testa. Era un giovane molto coraggioso e cercava di proteggervi in tutti i modi, ma fu inutile. Noi avevamo il potere, ragazza. Dovevamo far capire chi comandava. Non sapevo bene che fare con te, eri bella, a chi darti? Poi, mi venne in mente che mio fratello Rodolfo e sua moglie Clara non riuscivano ad avere figli e ti consegnai a loro tre giorni dopo. Erano felici e ti hanno amata molto. Sei stata molto fortunata Laura, non puoi lamentarti”.
Incredula, Laura tornò a interrogarlo: “Loro…sapevano?”.
“Loro sapevano che eri la figlia di due sovversivi del regime che erano stati giustiziati e che meritavi un destino migliore del loro. Così ti abbiamo dato l’opportunità di vivere una vita meravigliosa con tutti gli agi possibili e immaginabili.”
“Ma mia nonna mi stava cercando per tutto il Paese!”
“Lo so, ricordo tua nonna e anche le sue interminabili e estenuanti telefonate. Continuavo a dirle che eri morta in carcere ma lei non sembrava convinta della mia versione. Non volevo dirle la verità, era troppo tardi, la tua famiglia era già un’altra. Non potevamo restituirti alla madre della sovversiva. Dopo la dittatura, ve ne andaste in Europa, era più sicuro per tutti.”
12 gennaio 2010, Barcellona
Sono in cura da uno psicologo che mi ha consigliato la mia collega Esther. Pensare che tutta la tua vita è una menzogna ed è frutto di un complotto, di un piano architettato dai militari per separare i neonati dalle loro vere famiglie è sconvolgente. È stata una strategia perversa per rompere i legami umani tra le vite di cinquecento bebè e le loro famiglie biologiche. Come si può perdonare questo scempio?
Non voglio più vedere i miei “genitori” e lo psicologo mi ha detto che questo è più che legittimo.
Non so se metteranno anche loro in carcere, in questo momento neanche mi interessa perché sto vivendo un trauma inenarrabile. Non riesco neanche a tornare nel mio bilocale perché è stato comprato dal fratello dell’assassino dei miei genitori naturali, probabilmente con gli stessi soldi che sono serviti a commettere queste atrocità.
Ancora non so che fare con mia nonna. È l’unico legame che mi resta con la mia vera famiglia e so che lei non è eterna. La convinco a venire a vivere qui? Lascio tutto e vado a vivere in Argentina?
Ho molta confusione in testa; in questi ultimi mesi, la mia vita è stata stravolta. Non so più che fare. Non so più chi sono. Vorrei dormire e non risvegliarmi mai più.