Pachinko. La moglie Coreana di Min Jin Lee
Recensione di Elisabetta Corti
Pachinko. La moglie Coreana è un romanzo di Min Jin Lee, pubblicato da Piemme nel 2021
Di cosa tratta Pachinko. La moglie Coreana
In una remota regione della Corea del Sud, all’inizio del XX secolo la piccola Sunja cresce insieme ai genitori, i quali conducono una vita modesta gestendo una piccola locanda.
Dopo la perdita del padre, Sunja si lega sempre più alla madre, e con lei continua la gestione della locanda fino a che, adolescente, viene sedotta da un uomo molto più grande di lei, Hansu.
Incinta, Sunja spera di convolare a nozze con il padre del bambino, ma scopre che Hansu è già sposato.
“Non sapevo fosse sposato. Non me l’aveva detto”. Yanjin rimase seduta immobile, con la bocca leggermente aperta.
“Al mercato, alcuni ragazzi giapponesi mi stavano infastidendo e lui li ha scacciati. Così siamo diventati amici”.
Per “riparare” la vergogna di un figlio fuori dal matrimonio, Sunja viene data in sposa ad un pastore religioso, Isak, diretto ad Osaka per svolgere la sua professione.
Sunja lascia così la sua terra, l’unica che conosce, per una terra inospitale, dove i coreani non sono benvenuti e dove crescerà due figli tra le difficoltà create dalla povertà e dalla guerra.
L’ombra di Hansu, l’uomo che ha cambiato il corso della sua vita, non se ne andrà mai davvero, manipolando la vita di Sunja e di coloro che le stanno accanto, in particolare i figli Noa e Mosazu.
Restìo a fasi analizzare sotto la sua lente d’ingrandimento, Noa non le parlò di sua madre, che era stata venditrice ambulante prima di kimchi e poi di dolci per consentire di andare a scuola, né del padre, morto per un periodo di dura prigionia durante l’età coloniale.
Perché leggere Pachinko. La moglie Coreana
La storia si dipana su circa 90 anni, ed è una saga familiare e storica.
Il libro ha ricevuto premi e recensioni da cinque stelle, e dico questo perché personalmente, invece, mi ha lasciata perplessa.
Le saghe familiari mi piacciono, anche se non ne sono una appassionata né le vado a cercare nelle mie letture. Quelle che ho letto hanno tutte un filo conduttore, ovvero una storia che di base non è particolarmente allegra e come i vari personaggi affrontano questi eventi nel corso dei decenni.
Un libro che ho amato nonostante sia straziante, ad esempio, è stato Madre del riso di Manicka Rani e poichè i tempi storici e gli argomenti sono abbastanza simili, ne ho involontariamente fatto un confronto, dal quale Pachinko. La moglie Coreana esce un po’ con le ossa rota.
Pachinko, La moglie Coreana non fa eccezione nel raccontare sciagure, ma nelle quasi 600 pagine di narrazione, ho trovato prima di tutto un racconto molto spezzettato e poco coinvolgente.
C’è una importanza eccessiva nei confronti di personaggi ed eventi irrilevanti, così come le scene di sesso sembrano forzatamente inserite e alcuni personaggi ne sembrano ossessionati.
La morte, come argomento, viene invece tranciato di netto, facendo anche salti temporali molto lunghi quando un personaggio muore.
Sunja e la quasi totalità delle donne nel romanzo non hanno coscienza di loro stesse come persone. Sembrano sempre parlare in nome di uno specifico gruppo: Coreane, o madri, o mogli, rendendo l’idea di personaggi stereotipati che accettano qualunque evento con un “non possiamo farci niente” (“Shouganai”, come viene ripetuto nel testo).
I figli di Sunja sembrano appositamente contrapposti tanto da sembrare caricaturali e Noa, il figlio prediletto per cui tutti fanno sacrifici per farlo studiare, sembra poi un un imbecille che accetta denaro e cene da un uomo dai loschi affari, per fare però il diavolo a quattro quando scopre essere il suo padre biologico (“scopre”, leggasi: lo avevano capito tutti tranne lui).
In generale mi è sembrato che non ci fosse una vera e propria storia da raccontare, ma che l’autrice abbia fatto una lista di disgrazie e attorno ad esse abbia costruito una storia spuntandole una ad una.
La conferma viene anche da un episodio del romanzo in cui si parla di omosessualità praticamente a casaccio, con personaggi talmente secondari da dover rileggere alcuni passaggi per capire di chi stessimo parlando.
Un punto a favore poteva essere il racconto della storia dei Coreani e dei Giapponesi, forse non sempre conosciuta dagli occidentali. Purtroppo però sembra più una presa di posizione dell’autrice stessa che non un racconto scevro da pregiudizi, facendone di nuovo un quadro stereotipato e poco interessante.
Arrivata a fatica alla fine di questo tomo, sono stata delusa da un finale che rafforza il concetto di sofferenza come unica possibilità di fronte ad una vita di fatalità, che forse cosi fatali non erano semplicemente prendendo una posizione.
Concludo dicendo che la scelta del titolo italiano è fuorviante: Pachinko è il nome del gioco d’azzardo giapponese con cui – credo – l’autrice volesse fare un paragone con l’estemporaneità della vita, guidata da eventi imprevedibili ed incontrollabili, e non il nome della moglie Coreana.
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