“Vergogna” di Melania Iris

Vergognati, così ridicola nella tua goffaggine.

Copriti, asciugati, nasconditi.

Il tabù non deve essere rivelato, ma coperto da un velo di riso e scherni, così pesante che schiaccia fino a non lasciare nulla di ciò che eri in origine.

Chi ero? La memoria scivola via, perde significato.

La sofferenza è imprigionata e cresce, cresce, cresce fino spaccare i muri ed inondare il mondo.

Non c’è più identità.

Il calore bruciante del termosifone struggeva la punta delle mie dita, congelate.

Da quanto era arrivato l’inverno, eravamo costretti a tenere il giubbotto anche in classe.

Riuscii giusto a rifugiarmi nel fetido bagno delle ragazze per cercare sollievo dal freddo, ma quel radiatore aveva l’intensità di mille soli. L’unica cosa che ottenni fu dolore.

Ero nervosa.

La lezione di educazione fisica fu frustrante: non ero brava negli sport e gli altri se ne approfittavano, bersagliandomi di continuo e scegliendomi sempre per ultima per le squadre.

Non rispondevo mai a tono, anzi, ma quella volta sentii di esserci stata molto vicina.

Ero fuori di me.

“Questa tortura finirà prima o poi, finirà e sarò libera di studiare quello che mi più mi piace, ricominciando in una nuova scuola”, mi dissi. “Con nuovi compagni e nuove possibilità, non rifarò gli stessi errori. Devo sopportare un altro anno, oltre a questo. Ma cosa vorrei studiare?”

Conoscevo la risposta, dunque interruppi il mio flusso di pensieri. Aprii la porta e la richiusi dietro di me, compiendo ciò che ci si aspetta di fare in un bagno. Una visione, poi, mi colpii con scarlatta violenza.

Ero esterrefatta.

Una macchia rossa si estendeva nelle mie mutande, perpetrandosi anche nei bianchi pantaloni da ginnastica.

Andai nel panico. Ne conoscevo la causa, poiché avevano già cominciato a venirmi due mesi prima, ma non avevo assorbenti con me.

Allungai una mano verso il contenitore della carte igienica e ne presi un quintale, cercando di tamponare il disastro.

Per quanto mi impegnassi, sembrava proprio che non riuscissi a coprire le tracce di quel tremendo assassinio.

Sudai freddo. Non mi era venuta una buona idea nel volermi vestire di bianco, proprio quel giorno. Non che un colore diverso mi avrebbe permesso di passare inosservata.

Mi feci forza, pensando che avevo passato di peggio e che non avevo nessun orgoglio da dover salvare. Mi chiesi solo se ci fosse altro da scavare sotto a questo fondo di sofferenza.

Il non trovare nessuno sulla strada del ritorno mi diede l’illusione di poterla fare franca.

O magari qualcuno c’era, ma si era trattenuto e non aveva voluto mettere il dito nella piaga. Forse non aveva visto.

Cercavo con tutta la mia forza di volontà di far tacere la voce nella testa che mi urlava che sarei dovuta scappare, nascondermi in un buco e non venirne più fuori.

Scomparire per sempre.

Non che qualcuno avrebbe sentito la mia mancanza. Eppure, qualcosa dentro di me non poteva arrendersi. Era forse paura dello sconosciuto? Codardia nella codardia?

Dovevo solo scegliere quale demone mi avrebbe ucciso: la vergogna o la paura?

La risposta fu semplice.

Entrambi.

Fissai per qualche istante la porta: la scritta: “2-D” cambiò forma, diventando “Lasciate ogne speranza, voi ch’ intrate.”

Almeno, Dante aveva Virgilio a supportarlo. Io ero sola.

Feci l’errore di avere speranza: “Se andrò dritta verso il banco, non dovrò girarmi. La macchia è solo dietro. Forse, non sarebbero stati così spietati nel notarlo.”

Oltrepassai la soglia dell’Inferno, con solo la mia flebile forza di volontà a farmi da scudo.

Tutto taceva.

Il professore di matematica stava spiegando qualcosa di cui non ho memoria. I miei compagni non proferivano parola, quasi sapessero già cosa sarebbe successo, nella suspense. Sulla lavagna c’era una lista di nomi, alcuni accompagnati da x.

Misi un piede davanti all’altro, verso la mia unica ancora di salvezza, sperando che l’uomo dietro alla cattedra potesse vedere l’onta alle mie spalle e trarmi in salvo dalla Spada di Damocle che minacciava la mia persona.

“Ravaioli, chi torna dal bagno deve segnarlo sulla lavagna.”

Ero davvero sola nella tempesta.

E che ridessero, allora, fino a riempirsi la pancia e scoppiare.

Banchettate sul cadavere della mia anima, finché ne troverete, finché non sarete sazi e anche oltre. Di me non rimarrà che il ricordo.

Lacrime agli occhi, mi girai ed accettai la mia condanna.

Lo scroscio delle risa mi colpì come una scarica di frecce senza fine, intrise di un malvagio veleno, ferendomi le spalle, la schiena e le gambe.

La mia mente venne erosa e collassò.

Si spense, lasciai la luce uscire dai miei occhi, ricercando un mondo di illusioni in cui non avrei potuto essere ferita.

Le figure intorno a me continuavano ad animarsi e a colpirmi, ma io avevo già smesso di ascoltarle.

Presi il gesso, segnai la x e mi sedetti sulla sedia davanti al mio banco.

Il viso della mia compagna di banco si divideva a metà tra il sogghigno e la pietà.

“Non vorrei dirtelo, ma avresti potuto usare la tua giacca per coprirti. Legandotela ai fianchi.”

“Tardi.”