“Schopenauer e la carta carbone” di Paola Crovi

Contest Amarcord

Primo giorno del primo lavoretto. Mi aspettano nella segreteria di una scuola.
Arrivo con la testa piena di Schopenhauer, teorie varie, sogni baldanzosi, speranze che già ho decretato saranno certezze realizzabili.
«Oh, ecco qui la figlia della nostra professoressa».
Mi accoglie il preside, un sorriso storto, un misto tra il furbo e il sornione.
«Vieni, vieni, ti affido alla segretaria, insomma, diciamo, alla nostra tuttofare»
«Ciao, piacere. Maria Luisa»
Mi stringe la mano, ha le guance ancora invase da un timido rossore.
«Vuoi i biscottini? Prendi, li ho fatti ieri sera per il dottore, cioè il preside, a lui piacciono tanto».
La guardo, è tutta rotonda: viso rotondo, occhi rotondi, braccia rotonde, fianchi rotondi. Un vestitino scamiciato, blusa con collettino arricciato, stivali creme.
«Presto, ti faccio vedere la tua scrivania».
L’ambiente è di quelli carichi di carte, scaffali, raccoglitori, tavoli, tavolini, ripiani, tutti pieni, ma ordinati, ordinatissimi.
‘Bene’ penso ‘Qui scrivono tanto, mi faranno redigere i verbali, preparare i programmi’.
«Ecco». Mi mostra tre o quattro pile enormi di moduli e poi un porta timbri.
«Attenta, attentissima, il preside non ammette errori».
Si sistema lo scamiciato con un gesto nervoso.
«Timbro grande modulo giallo, timbro piccolo modulo bianco…»
Già non mi ricordo più niente.
I mesi successivi sono quelli dei timbri, dei carrelli doppi della macchina da scrivere, dei correttori, dei moduli dritti e storti.
«Hai messo la carta a carbone alla rovescia».
Voglio morire. È che Schopenhauer non parla di carta carbone!
«Non ti preoccupare, ti insegno io, sistemo io».
Maria Luisa mi sorride sempre, col suo sorriso rotondo, fatto con una bocca rotonda.
«Prendi una frittella, le ho cucinate ieri sera, al dottore piacciono tanto e la moglie non gliele fa mai».
I biscottini, le frittelle e le torte sono buone, sanno di uova, burro, zucchero.
Arrivano Natale e le vacanze. Posso tornare libera di leggere, sognare, fantasticare.
La mattina del primo giorno di ripresa, a gennaio, scelgo al volo una scatola di cioccolatini da portare a Maria Luisa. È una di quelle avanzate dai cesti natalizi.
«Ben tornata».
Le sue guance sono più rotonde del solito, gli occhi rotondi brillano.
«Ho una piccola cosa per te».
Tiene nascosto dietro la schiena un pacchettino.
«Sai, ho pensato che prima o poi ti sposerai e dovrai farti una dote».
La guardo e non capisco pienamente il senso delle sue parole.
«È una piccola cosa, l’ho fatta io, ti servirà per stendere il bucato. È un porta mollette».
Non so se ridere o piangere. ‘Dote, sposarsi, stendere, mollette? Ma che dice?’.
Mi concentro. «Grazie». Rispondo compita.
Apro: una specie di vestitino come quello per le bambole, con manichine, grembiulino e una apertura per mettere le mollette. Tutto ben cucito, con ricami vari.
Dopo i convenevoli torno ai miei timbri.
Il porta mollette se ne sta lì, buttato da una parte, ogni tanto gli lancio un’occhiata.
È così d’antan, così tipo pesca parrocchiale, con quelle manichine, con quel grembiulino.
Ma ha qualcosa di buono in sè, qualcosa di familiare.
Ecco, più che di mollette potrei riempirlo di buoni sentimenti.
La mia scatola di cioccolatini mi sembra un regalo da Befana aziendale di Fantozzi.
Mi sento vuota, quasi mi vergogno.
Questo scrivevo quarant’anni fa.
Ora, per rileggerlo e ripensarci, il tempo mi è volato.
Devo andare, mi aspetta il bucato da stendere, ma farò velocissima con il mio porta mollette.