Oltre l’onda di Maddalena Francavilla
Due punti luminosi nel nero della notte stavano diventando sempre più vicini, due occhi in una faccia nera si stavano aggrappando a lei. Non l’aveva sentita arrivare, doveva esserci un corpo attaccato a quella faccia, perché era pesante. In due sarebbe stato più facile andare a fondo, ma quella faccia nera non ne voleva sapere di andare giù.
Era andata in esplorazione nei giorni precedenti, la vista era magnifica. Avrebbe potuto passare il resto dei suoi giorni lì, riempirsi gli occhi di quella luce, di quei colori, respirare l’aria fresca e il profumo del mare con il vento tra i capelli. Una parte di lei avrebbe voluto desiderare solo questo, un’altra parte continuava a pensare che ci volesse altro nella vita. Trascinava la sua esistenza simulando un finto interesse alle cose, cercando di riempire il suo vuoto. Aveva predisposto tutto, doveva solo decidere quando trovare il momento giusto.
Un lungo attimo, un tempo indefinito, poi l’impatto con la superficie bagnata, tutto intorno nero, come se volesse cancellare ogni cosa, pian piano sarebbe stata sommersa da quel freddo e sarebbe finita. Il rumore delle onde si alzava e si abbassava come il movimento dell’acqua, nella quiete della notte percepiva solo suoni indistinti. Doveva solo aspettare che tutto finisse. Ma i rumori continuavano. Anzi, si avvicinavano.
Sapeva che arrivavano proprio da quella parte dell’isola dove le correnti spingono nella direzione più sicura, la piccola insenatura tra le rocce, la spiaggia dove non andava mai nessuno. Non era facile, ma spesso riuscivano a raggiungere più o meno indenni la costa. Poi sparivano veloci e in silenzio. Dopo qualche giorno arrivava anche il relitto e restava incagliato negli scogli, fino a quando qualcuno non trovava utile qualche resto dell’imbarcazione di fortuna. Così lo smontavano pezzo dopo pezzo.
L’ultima spiaggia dei sopravvissuti. La spiaggia di chi vive e di chi muore.
Se solo riuscissi a dare un significato a questo spazio, tempo, luogo. Un dubbio senza una risposta, pensieri sparsi avevano cercato di afferrare brandelli di senso. Invano. Era arrivata solo a quell’unica conclusione. Si era affezionata a quel posto, era diventata meta quotidiana, come se andasse a controllare che non sparisse, o che qualcuno non modificasse qualcosa o rovinasse la scena. L’aveva scelto con cura, un pezzo di natura incontaminata, riparato da occhi indiscreti.
Il giorno giusto finalmente arrivò.
Il suo corpo scendeva, ma poi risaliva, non era facile stare sotto, pensava che il buio l’avrebbe aiutata, ma queste sono leggi di fisica e non volontà. Forse sarebbe bastato stare ferma. Sentiva il suo corpo svanire, anestetizzato dal freddo.
I ricordi si affollavano nella sua mente, con le voci distanti e confuse, parole incomprensibili, che sembravano quasi vere, proprio lì accanto a lei. Poi la vide. Non voleva salvare la sua vita, voleva trovare il significato ultimo alla propria vita, l’ultima cosa che avrebbe potuto fare. Mantenersi a galla, non per lei, ma per l’altra.
Non puoi decidere l’inizio della vita, ma puoi decidere la fine. Decise in un attimo che avrebbe potuto rinviare la fine. Quel corpo attaccato al suo le stava dando una ragione di vita. Insieme assecondarono il flusso delle onde, chiudendo gli occhi a ogni immersione e sputando acqua salata a ogni emersione.
Raggiunsero la riva, avvinte una all’altra, non era chiaro chi avesse salvato l’altra.
Quando riaprirono gli occhi, il sole era già alto.
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