“Nonna Amelia” di Elvira Rossi

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Nonna Amelia aveva una corporatura minuta, che s’indovinava sotto una veste ampia e così lunga da arrivarle alle caviglie.

Non scopriva mai le esili braccia neppure nella stagione estiva, quando il lino o la seta sostituiva la lana degli abiti invernali. Era perennemente avvolta in una cortina di nero totale, che non veniva mai moderato da una minuscola nota di colore.

Mai una distrazione, mai un errore o una vivace contaminazione, che intervenissero a interrompere il lutto totale, come se la vecchina avesse voluto nascondere il corpo, fino ad annullarlo, quasi a farsi perdonare di essere ancora in vita.

L’unica nota briosa concessa era un sottile profumo di lavanda, che ogni mattina la nonna spandeva in poche gocce sopra un fazzoletto bianco, listato anch’esso a lutto, e che dopo essere stato accuratamente ripiegato, veniva riposto in tasca.

Il rito della profumazione mattutina aveva generato una fusione inconfondibile di elementi, che si tradivano a vicenda. Infatti la nonna, quando arrivava in un ambiente, trascinava con sé la fragranza di fiori azzurri e viceversa, se in qualche cantuccio si avvertiva il fresco sentore del vento di Provenza, non ci si poteva sbagliare, di là era passata lei, la dolce vecchina.

Nella memoria di Linda il profumo di lavanda sarà sempre legato alla nonna. Tra i preziosi ricordi, però, mancherà il suono di una risata gioiosa, infatti la nipotina ricorderà la nonna sempre immersa in una nuvola nera di mestizia.

La vecchia signora usciva molto raramente e solo in circostanze particolari.

Usciva accompagnata dalla fedele Giovanna, che un temperamento bonario e numerosi anni di servizio avevano trasformato in una persona di famiglia.

In tal caso, anche il bianco dei capelli diventava intollerabile per nonna Amelia e veniva nascosto da un cappellino nero munito di  una veletta, che  le scendeva sulla fronte, fino a sfiorarle la punta del naso.

Sceglieva sempre il tragitto più breve e affiancata da Giovanna, avanzava a passi piccoli e rapidi, evitando di guardarsi intorno, come se provasse fastidio per l’ambiente circostante.

Chi la conosceva, la salutava con rispetto, si faceva da parte, cedendole la strada, senza osare mai di parlarle, per non rallentare passi, che con chiarezza manifestavano l’ansia cagionata dalla fretta.

Nonna Amelia, quando rientrava a casa, tirava un respiro di sollievo, paga di essersi liberata di una faccenda sgradevole.

Non disdegnava ricevere le visite di parenti o vecchi amici famiglia, con i quali poteva rievocare un passato felice. Nel salotto buono, che veniva aperto ogni qual volta ci fossero degli ospiti, seduta in un divano di velluto verde scuro, partecipava alle conversazioni.

Ascoltava volentieri gli altri  e si interessava della loro salute, ma quando parlava di sé, la musica cambiava. Le sue parole suonavano come note di una triste sinfonia e il suo sguardo diventava cupo come l’abito, che indossava.

In quella figura spenta l’unico indizio di vita era negli occhi, mobili ed espressivi, che, o lei parlasse o tacesse, alludevano al dolore sconfinato di madre ferita a morte.

La nonna e  la nipotina passavano molto tempo insieme, come spesso accade, quando i genitori hanno numerosi impegni. Erano felici di godere della reciproca compagnia, mentre la devota domestica si occupava delle pulizie e del pranzo.

Una componente di afflizione, inscindibile da nonna Amelia, non interveniva come elemento di disturbo, al contrario misteriosamente rendeva speciale e profondo il legame con la nipotina.

Nonna Amelia e Linda avevano creato uno spazio, che in certi istanti apparteneva esclusivamente a loro. Un mondo popolato da gesti quotidiani, la cui monotona ripetitività trasmetteva una rasserenante tranquillità e la sicurezza di esserci sempre una per l’altra.

La nonna durante il giorno amava soffermarsi in una saletta, davanti a un’antica consolle, dove erano poste, come immagini sacre sopra un altare, fotografie in bianco e nero di uomini troppo giovani, per essere imprigionati in cornici d’argento.

Quello era l’angolo della casa più curato e visitato dalla nonna.

Sulla consolle venivano rinnovati frequentemente centrini di lino, finemente ricamati a mano e freschi di  bucato e di lavanda.

Una minuscola lampadina di un prezioso abatjour dalle delicate decorazioni diffondeva un filo sottile di luce sui ritratti.

La nonna ogni mattina con sollecitudine amorevole rinnovava l’acqua in un vaso di opale azzurro, dove disponeva fiori freschi, che coglieva lei stessa nel giardino. Prediligeva fiori bianchi, che mutavano a seconda delle stagioni. Il mese di giugno le donava i fiori preferiti, gigli immacolati e tralci odorosi di gelsomini.

La giornata di nonna Amelia iniziava e finiva sempre con una lunga sosta davanti a quelle fotografie.

Ispezionava con attenzione ogni dettaglio su quel piano di marmo verde, ricoperto quasi totalmente da candide trine. Non ammetteva la presenza di un solo granello di polvere.

La nonna, quando indugiava dinanzi alla consolle, sembrava estraniarsi, talvolta si concentrava in una preghiera silenziosa e altre volte sussurrava tacitamente tra le labbra, come se avesse dialogato davvero con qualcuno, che fosse lì dinanzi a lei.

A tratti il suo viso si rabbuiava o si illuminava a seconda dei pensieri e delle emozioni, che le attraversavano la mente. A distoglierla da quegli incontri silenziosi, era il richiamo di Linda, che reclamava la sua attenzione.

Nonna Amelia, per svagare la nipotina, spesso le raccontava delle storie. Non erano le classiche fiabe, che si narrano ai bimbi, ma  aneddoti ispirati alla realtà.

Nonna Amelia si sedeva in un’antica poltrona a dondolo, mentre Linda le si raggomitolava in grembo e, strette da un caldo abbraccio, insieme iniziavano a viaggiare tra realtà e immaginazione.

La nonna con gli occhi umidi e il respiro affaticato da un dolore  a stento trattenuto, rievocava modesti avvenimenti della vita passata. Possedeva, però, una notevole abilità di rendere grandiosi fatterelli umili, che all’innocente ingenuità di Linda apparivano straordinarie avventure.

Gli eroi delle fiabe erano quasi sempre gli stessi, Guido e Aristide, i due figli di nonna Amelia, morti in età giovanile a breve distanza uno dall’altro.

Favole recitate con un’infinita dolcezza, tanto da non turbare la nipotina, e che avevano lo straordinario potere di trasmetterle l’amore per chi non avrebbe mai potuto conoscere.

La sera, prima che le luci si spegnessero, nonna e nipote venivano separate dall’ordine di andare a dormire e Linda ricorreva a mille scuse per intrufolarsi in camera della vecchina. S’inventava magari di aver dimenticato un giocattolo proprio lì, quando sapeva che la nonna si sarebbe dovuta per forza liberare della gramaglia nera, perché amava scrutare la vecchina nel momento rivelatore della vestizione per la notte.

Linda sperava di arrivare nella stanza, prima che la nonna avesse indossato la camicia da notte, perché a divertirla erano soprattutto dei mutandoni di mussola bianca, lunghi fino ai ginocchi e vezzosamente ornati di pizzo. Gli indumenti intimi, lasciando scoperte le gambe, le braccia e parte delle spalle, svelavano la magrezza di un corpo dalla pelle diafana, che da tempo non incontrava il sole.

Il chiarore delle vesti, confondendosi con il pallore del corpo, rendeva la nonna simile a una creatura lunare.

Che Linda fosse riuscita nell’impresa di scrutare la nonna, lo si intuiva dall’espandersi di una risata argentina di bimba, che nel vano tentativo di soffocare quel suono delizioso, si copriva la bocca con la mano e poi soddisfatta scappava via.

La severa vigilanza dei genitori, che volevano educare la bimba al rispetto delle regole e degli orari, rendeva più eccitante il gioco di Linda.

Ogni inizio di un nuovo  giorno rappresentava una tappa rassicurante di un itinerario noto, ma non del tutto sprovvisto di sorprese .

 La nonna apriva la porta della propria camera e chiedeva di Linda.

 – Dov’è Linda?  Si è svegliata? Sta bene?-

Ci fu un mattino, in cui la porta della stanza della nonna rimase chiusa e a Linda fu vietato l’accesso. La nonna non stava molto bene e non poteva essere disturbata.

La bimba tentò di ribellarsi a quella decisione e provò a entrare, ma la porta veniva presieduta dal padre, che con autorevole determinazione l’accompagnò in cucina e l’affidò a Giovanna.

Quel giorno la mamma stranamente non era uscita e informò Linda che di lì a poco sarebbe venuta a prenderla zia Anna, per condurla dai cuginetti.

Linda, segregata nella cucina pregna dell’odore acre di legna bruciata, riuscì a sottrarsi per un istante alla vigilanza di Giovanna, che quel giorno appariva confusa e disorientata come non mai. Approfittando che la donna di servizio fosse impegnata nella solita battaglia con il gatto, che intralciava le sue movenze, la bimba aprì piano piano la porta della cucina e seminascosta sbirciò, per capire quale significato avesse la strana animazione.

Avvertiva un rumore di più passi e di porte, che si aprivano e si chiudevano e un insolito andirivieni di parenti, che abbracciavano la mamma triste come non mai.

Linda era sempre più turbata dalla successione di mosse decisamente inconsuete, ma non riusciva a capire cosa stesse accadendo.

La bimba attraverso quel varco poteva indirizzare lo sguardo nella stanza di fronte, proprio nell’angolo della consolle. A un certo punto vide la madre raccogliere tutti i portaritratti, uscire da quella stanza, per dirigersi poi verso la camera serrata della nonna.

In Linda, sempre più in preda all’agitazione, iniziava a farsi largo un dubbio doloroso.

 – Dov’era la nonna? Perché non era uscita a cercarla come tutte le mattine? Possibile che non si fosse ancora svegliata? –

Le azioni della madre avevano seriamente allarmato la bimba, che ormai era in preda a un sentimento d’inquietudine e di sospetto.

– Che la nonna si fosse addormentata per sempre? – Il dubbio incominciava a straziare l’animo della fanciulletta.

 – Quelle fotografie staccate dalle cornici avrebbero forse accompagnato la nonna nell’ultimo viaggio? –

Linda da tempo sapeva con certezza che questa era la volontà di nonna Amelia, lo aveva saputo una delle tante volte che si era nascosta sotto l’imponente tavolo al centro della stanza da pranzo.

Il vecchio tavolo di noce massiccio disponeva di una sorta di pedana sottostante, che per mezzo di listarelle di legno si collegava ai robusti piedi. Ricoperto da un pesante drappo arabescato, che terminava con lunghe frange annodate, costituiva un attraente nascondiglio.

Non era raro che la bimba sparisse sotto lo spazio accogliente del tavolo e giocasse, immaginando di trovarsi in una misteriosa casetta.

Talvolta gli adulti distratti confabulavano liberamente, senza considerare la presenza di Linda, che da quella postazione privilegiata era ben contenta di venire a conoscenza di piccoli segreti familiari.

E proprio durante una di queste conversazioni la bimba aveva appreso che la nonna desiderava  di essere seppellita con i ritratti dei figli.

Linda ormai incominciava a trasformare il dubbio in una certezza: la nonna era volata in cielo.

Ormai incurante del timore di essere scoperta, mise da parte ogni cautela, richiuse la porta con violenza e rientrò in cucina. Fu il gesto di rabbia e di disperazione di una bimba, che per la prima volta provava l’angoscia di una perdita difficile da sostenere.

La porta sbattuta attirò l’attenzione di Giovanna, che intanto aveva smesso di guerreggiare con il micio impertinente. La domestica intuì che la piccola aveva scoperto qualcosa e accorse subito, per confortarla.

Linda la respinse con un gesto sgarbato, come sono soliti fare i bambini, quando sono molto arrabbiati con gli adulti. E andò in cerca di Lauretta, la sua bambola preferita, donatale proprio dalla nonna e che era lì abbandonata dalla sera precedente sopra una seggiola, accanto al caminetto.

La prese, la strinse tra le braccia, quasi a chiederle conforto e a raccontarle il proprio dolore. Poi si avviò di nuovo verso la porta, la spalancò e piangendo disperata fuggì via dalla cucina. E lesta andò a rifugiarsi in quel nascondiglio, che apparteneva solo a lei.

La mite Giovanna turbata da quelle lacrime l’aveva seguita, ma non era riuscita a fermarla.

La poverina, impacciata nei movimenti dall’abbondanza  del corpo, non poteva di certo infilarsi sotto il tavolo, per trascinarla via. Si limitò a inchinarsi, sollevò le frange del tappeto, per implorarla dolcemente a uscire.

La donna mise una mano nella tasca del grembiule, ne trasse fuori una manciata generosa di caramelle e le porse a Linda.

Era un gesto, che talvolta riusciva a risolvere tanti piccoli conflitti tra la bimba capricciosa e la dolce Giovanna. Quella volta, però, non funzionò, neppure le caramelle al limone potevano consolare Linda, che sperò di essere dimenticata dagli adulti, come talvolta era accaduto in passato.

Linda continuava a singhiozzare sommessamente, stringendo a sé la bambola.

Ogni tanto qualcuno provava a convincerla a uscire da quel rifugio, fino a quando suo padre intervenne spazientito e la tirò fuori a forza. Linda non riuscì a trattenere Lauretta, che rimase malinconicamente sotto il tavolo.

Intanto era arrivata zia Anna, che avrebbe condotto la nipotina con sé, ma Linda incominciò a piangere ancora più forte, a urlare e a tirare calci a chicchessia. Voleva la nonna, voleva vederla. E nessuno riusciva ad acquietarla.

Di fronte a tanta resistenza, intervenne la mamma, che decise di parlarle. L’attirò in disparte, la prese tra le braccia e cercò di calmarla. Nascondendo il proprio dolore e sforzandosi di apparire serena, ammise a Linda la verità. Sì, la nonna si era addormentata per sempre, ma dal cielo l’avrebbe sempre protetta e non l’avrebbe mai abbandonata.

Linda tra i singhiozzi, che la scuotevano tutta, sconsolata continuava a chiedere insistentemente di vedere la nonna.

La madre fu costretta a cedere all’ostinata richiesta, pertanto promise alla bambina che le avrebbe consentito di salutare la nonna dalla soglia della camera. Poi, però, avrebbe dovuto seguire la zia, senza più piangere e fare capricci.

Fu proprio la mamma a prendere Linda per mano e ad accompagnarla davanti la camera chiusa. Aprì la porta, si fermò sulla soglia e tenendo la figlioletta ben stretta a sé, per evitare che scappasse all’interno, la invitò a salutare la nonna.

Linda indirizzò lo sguardo verso il letto, sul quale tante volte si era arrampicata, per divertirsi.

Il corpo inerte disegnava un’esile sagoma sotto il copriletto di piquet. All’esterno si intravedeva solo il volto ceruleo, che si confondeva con il candore dei capelli, raccolti in una crocchia, secondo l’uso antico delle donne anziane.

Quante volte Linda aveva tentato con le manine impertinenti di sciogliere quei capelli, cercando di sfilare le forcine di osso dallo chignon!

Con aria dispettosa e divertita amava ritornare con frequenza a quel gioco e smetteva, solo quando qualche ciocca iniziava a sfuggire dalla treccia della nonna e allora rideva contenta. Ora non si sarebbe più potuta cimentare nel trastullo prediletto e non avrebbe più potuto ascoltare le storie da quella voce adorabile.

La sgomentava l’idea che la nonna avrebbe trascinato con sé tutto un mondo, ricco di storie e personaggi eroici. Chi le avrebbe parlato più di zio Guido e zio Aristide? La nonna forse li avrebbe portati via con sé e le loro immagini si sarebbero dileguate per sempre da quella casa.

L’innocente Linda non aveva ancora scoperto che le parole della nonna avevano ordito un intreccio di sembianze reali, che si erano radicate dentro di lei e non l’avrebbero più abbandonata.

Solo da grande avrebbe capito che la nonna le aveva lasciato in eredità un piccolo universo di persone care, da amare e da custodire nella memoria. Gliele aveva affidate in vita, perché in futuro fosse lei la sacerdotessa dei numi tutelari della famiglia.

L’esistenza umana non è popolata solo di presenze tangibili, ma di presenze che, pur prive di materialità, posseggono un’anima e continuano, dentro di noi, a parlarci.

Questo era l’insegnamento, che nonna Amelia con l’esempio e con le favole aveva trasmesso alla nipotina.

E in futuro Linda vivrà un momento difficile, in cui avrà la sensazione, o l’illusione, d’incontrare zio Aristide e zio Guido, nella veste di angeli, scesi dal cielo in suo soccorso. Ma questa è un’altra storia, perché ogni storia, a sua volta, ne contiene sempre un’altra e poi un’altra ancora e cosi di seguito, come una matrioska, che si apre all’infinito mostrando alla luce i propri segreti

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“La nonna” di Elvira Rossi

Minuta, esile, velata di nero

solo il candore di bianchi capelli

intrecciati e fermati da lunghi spilloni,

irrompeva in un lutto che era per sempre.

Il viso mai illuminato da un sorriso.

Ai bimbi regalava carezze e favole tristi

di figli partiti e scomparsi per sempre.

Con le deboli braccia faceva una culla,

per dondolare la nipotina.

C’era una volta un paese africano,

che aveva donato una tomba di marmo

al figlio rapito e mai più ritornato.

La nonna cantava la ninna la nanna

di quell’altro figliolo sfuggito alle bombe

e voluto dal Cielo tutto per sé.

Narrava di un cuore trafitto da spade,

mentre cantava la ninna e la nanna.

Sognava la bimba una fata turchina

che dal cuore ferito strappasse le spine.

Fai la ninna fai la nanna,

il giorno arrivò e la nonna si addormentò

e felice in Paradiso due angeli incontrò.

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