“Nera è la morte” di Francesca Gnemmi
Un assiolo volava solitario ai margini del borgo. Intorno, silenzio assoluto, buio assoluto.
Soltanto in lontananza, oltre le mura del castello, qualche fiammella ancora accesa. Fiaccole che si spegnavano una dopo l’altra, anch’esse assopite in una lunga notte.
Nel becco del rapace un piccolo fagotto.
Aveva udito gli ultimi vagiti poco prima di spiccare in volo. Un altro bambino su cui spargere polvere del sonno. Nuova vittima di una natura che non lasciava spazio a figli di violenza e oblio.
Ester, la Mietitrice, impugnava il pestello e aggiungeva manciate di petali di papavero alla polvere già battuta.
I lunghi capelli neri cadevano lungo i fianchi, poggiando sul tavolo e coprendole le mani. Il viso cereo somigliava a quello di una statua e lo sguardo non tradiva alcuna emozione.
«Ti stai ammorbidendo troppo. Non va bene.»
Nessuna risposta.
«Una volta non ti saresti presa il disturbo di avere una scorta della tua polverina magica. Bastava un freddo alito di vento ed era cosa fatta. Sei tu la sovrana indiscussa, la Nera, e nulla si può contro il tuo volere.»
«Taci Adan, nella Terra delle Ombre eri qualcuno, ma ora non sei più libero di dire quello che pensi. Impara il rispetto o ti ritroverai nel luogo dove ti ho raccolto. Puoi rimanere qui e aiutarmi, ma non mettere alla prova la mia pazienza.»
«Ora ti riconosco, mia Signora. Tu sei la Legge e non guardi in faccia a nessuno. Il potere è tuo.»
Il mortaio si schiantò a terra, sulla pietra dura, frantumandosi in mille pezzi.
«Non credere sia così semplice. Se potessi decidere quali anime mietere, non risparmierei esseri terreni malvagi e lascerei in vita bambini inermi. Tutti pensano che io sia il male.
In verità, non sono né buona né malvagia, sono soltanto Morte.»
«Tu hai tutto.»
«Nulla mi appartiene. I mortali vivono temendomi, sapendo che io stessa non temo nessuno. Non ho paura perché non ho coscienza. Se così fosse, saprei distinguere colui che deve prostrarsi al mio cospetto da chi dovrebbe vedere nuove albe.»
«Possiedi consapevolezza, altrimenti non conosceresti la pena e non manderesti quello stupido uccello dai bambini, al tuo posto. Vorresti salvarli ma non puoi. Non è tuo compito.»
«Non c’è magia che sottragga l’uomo dal male che egli stesso crea. Non spetta a me condannarlo, perché lui stesso sarà, un giorno, vittima delle sue stesse azioni.
Io pretendo soltanto anime. Ho compreso, però, l’importanza della giustizia che, ahimè, non posso esercitare, e che in queste Terre si è perduta tra le nebbie.»
«Basta con il tormento, mia Signora, non sei una Salvatrice.»
«Attento Adan, elfo insolente, bada a come parli.»
Al limitare del bosco, una donna piangeva lacrime di sollievo.
La creatura che portava in grembo non avrebbe più sofferto. Il frutto del sopruso subito sarebbe stato sepolto insieme alla sua vergogna.
Mentre abbandonava il corpicino ancora caldo, non si accorse dell’uccello appollaiato su un ramo poco distante. Due occhi tondi la osservavano, con insistenza. Nulla sarebbe sfuggito a quello sguardo e ogni dettaglio sarebbe stato riportato alla padrona.
L’assiolo comparve alla finestra e la conversazione terminò.
L’elfo e la Nera Mietitrice guardarono il rapace che, con un cenno del capo, confermò di aver adempiuto alla sua missione. Con un breve volo andò a posarsi sulla mano della Donna della Morte e iniziò a raccontare.
«Per l’ennesima volta, è stato portato innanzi a me uno spirito candido, mentre una donna vigliacca e un uomo feroce respirano ancora. Quanto è vero che sono Morte, non attenderò che il destino faccia il suo corso.