Amarcord
“Mare in tempesta” di Chiara Minutillo
Era l’estate del 1997, forse l’ultima estate “normale” che ho visto. Un’estate mite, non particolarmente afosa. Avevo sette anni e per la prima volta avrei trascorso quelle due settimane di vacanza lontano dalla spiaggia che mi aveva accolta sin dal mio primo anno di vita, lontano da un mare nelle cui acque cristalline avevo imparato a nuotare, tuffandomi dagli scogli, immergendomi senza paura, con l’incoscienza, l’innocenza e la curiosità di una bambina che dell’acqua ha fatto il suo elemento.
Una nuova spiaggia, quell’anno, si presentò davanti ai miei occhi quando scesi dall’auto. Tutto era così diverso dall’idea che avevo di mare. Era bello, sì, ma in modo differente. Non c’erano scogli, grotte, sassi. Solo una distesa infinita di sabbia. Non c’era il mare azzurro, trasparente, in cui trovare le meduse. Un’infinità di alghe si depositava ogni mattina sul bagnasciuga. Non c’era il nulla, le strade deserte, prive di illuminazione, i cespugli o il rumore inconfondibile dei cinghiali che scavavano. C’erano le case, le luci, i locali, il traffico. Voci, musica, suoni. Non c’erano le mie colonne d’Ercole, due spuntoni di scogli subacquei che affioravano e formavano una sorta di barriera, oltre la quale c’era l’ignoto. Oltre la quale mi avventuravo senza permesso, approfittando di un minuto di distrazione dei miei genitori.
Amavo il mare, al punto da entrare in acqua e uscirne solo quando le labbra si facevano viola e sentivo di non avere più la forza di resistere alla sua corrente. Mi piaceva svegliarmi all’alba, trascinare mia madre giù dal letto e sedermi sulla sabbia fredda e umida. Ascoltare il rumore lieve delle piccole onde che bagnavano la spiaggia, mentre il cielo si tingeva di rosa e arancio e il sole cominciava a sorgere, diventando sempre più splendente.
In realtà, l’unica cosa che ricordo molto bene di quell’estate del 1997 è il mare in tempesta. Quando vidi i lampi nel cielo nero, riuscii a convincere mia madre e la sua amica a portarmi in spiaggia. Tutto era scuro, come se il sole non fosse mai sorto quella mattina. Persino il mare era grigio. Sembrava furioso. I tuoni rimbombavano. Le luci del temporale si riflettevano in quella distesa di acqua buia, che ruggiva come un leone affamato. Ammiravo quei ragazzi che lo sfidavano, andandogli incontro con lunghe tavole sotto le braccia muscolose e sparivano tra le sue onde. Poi l’onda arrivò anche su di noi. Ci travolse con un impeto inaspettato. Fu obbligatorio soccombere. Nessuno pensava che quelle onde potessero arrivare fino a lì. Sentendo l’acqua addosso ebbi l’istinto di nuotare. Lasciai la mano di mia madre.
Forse nuotai davvero, nel tentativo di resistere alla corrente che mi trascinava lungo la spiaggia. Forse rimasi ferma a godermi la sensazione di quel risucchio. Non finii in mare. L’acqua, forse, ebbe pietà di me e mi lasciò sulla sabbia, a pochi centimetri da lei. Non ricordo cosa provai. Sicuramente non capivo il pericolo appena scampato. So solo che, da quel momento, continuo a desiderare di rivedere il mare in tempesta.
Ma che bello questo Amarcord, Chiara! La tua scrittura è talmente coinvolgente che perfino io che non amo particolarmente il mare ho desiderato come te di poter vedere un mare in tempesta!
Grazie mille!