LA STANZA VUOTA di Annalisa Fabbro

Il letto sfatto, coperte abbandonate tra il materasso e il pavimento, il lenzuolo accartocciato come il sacchetto del pane, cuscini piegati a metà uno sopra l’altro quasi a proteggersi.
Ogni tanto il silenzio è rotto dal passare di un’auto sulla strada, le imposte accostate lasciano filtrare una luce irreale che fa apparire le pareti della stanza di un colore assurdo.
È rimasto tutto così, immobile, come sospeso in una gigantesca bolla, da quel giorno in cui te ne sei andata per sempre.
Ricordo la tua telefonata angosciata, la mia corsa in macchina a folle velocità per raggiungerti, quella che la mia memoria non ha mai ricordato, l’appello disperato di aiuto all’ospedale e poi l’arrivo dell’ambulanza a sirene spiegate e il via vai di medici e infermieri nella tua stanza.
Poi, più niente, solo la mia mente vuota che cerca di scacciare un ricordo troppo doloroso da ricordare.
Sono passati mesi da quel giorno e in quella stanza non sono più entrata, oggi raccolgo il coraggio e affronto il dolore dei ricordi.
Non ci sei più tu in quel letto ad accogliere le mie visite frettolose con un sorriso.
Dove trovassi sempre la forza per sorridere nonostante il dolore non l’ho mai capito e provavo quasi rabbia nel vedere che tu riuscivi a sorridere mentre io mi arrabbiavo per i mille futili motivi della giornata.
Non capivo che ti stavo perdendo, non ce la facevo, mi illudevo che avrei continuato per sempre a vederti lì stesa su quel letto ad ascoltare i miei inutili sfoghi.
Ora mi accorgo di quante cose avrei voluto dirti, raccontarti, anche se tu, sono sicura, le sapevi già tutte in segreto.
Allora inizio a parlare, un fiume in piena di parole mai dette, io sola dentro una stanza vuota e mentre lo faccio mi accorgo che le lacrime che scendono calde a rigarmi le guance sono tante, mi accorgo che sto ripetendoti all’infinito che ti voglio bene come purtroppo non ho mai fatto prima, mamma.