“Il segreto di Fred Painblanc”

di Cristina Basile

L’aspettavo al tavolo.

Come uno stupido avevo messo il fiore all’occhiello, rimasuglio del mio amore per i travestimenti e, invero, una dimostrazione di docilità, una richiesta di comprensione, fatta prima ancora di aprir bocca.

Ero visibilmente in pena per ciò che stavo per fare.
Era ormai grande mia figlia, Nathalie, ed in me tanta la voglia di abbassare quelle armi che un padre, per un istinto di esemplarità, alza sempre un poco.

Per questa ragione, nonché per il mio vestito e il mio fare maldestro, sentivo che sarei stato io il bambino della situazione in quel pomeriggio.
Me ne stavo tutto tremolante, davanti ad un cappuccino che non avrei consumato, per via degli intestini che mi si contorcevano sotto i colpi di un’angoscia potente.

Angoscia di dover comunicare un segreto: la mia storia d’amore con un uomo. Proprio a lei a cui mai avevo parlato d’amore.

Come avrebbe reagito, sapendo che l’aveva persino incontrato il mio segreto? Durante l’unico Capodanno passato senza sua madre che finiva di lavorare ad un testo, la biografia dell’uomo che aveva inventato le insalate in busta, la cui traduzione, contro ogni aspettativa, la appassionava parecchio.
Per quanto fossi allibito, quella volta non mi ero arrischiato a dirle che, da fuori, non sembrava quello un motivo valido per perdere l’ultimo giorno dell’anno.

Ma da così tanto non la vedevo serena e rapita da qualcosa, che ero uscito senza batter ciglio, prendendo con me solo nostra figlia.

Più invecchiavo più prendevo le cose alla leggera.

Per esempio, mai ero stato scoraggiato dalle depressioni di mia moglie, Nicole, sebbene quelle fossero di gran lunga superiori alle volte in cui facevamo l’amore. Le danze cominciavano con un banale mal di testa e si chiudevano con lei sul letto a chiedere una camomilla.

Per fortuna ero nato giulivo, di un ottimismo a volte idiota e che mi spingeva, quando lei cadeva nel baratro, ad andare a fare il giullare nella sua stanza per creare un mondo in cui non c’era bisogno di vivere bocconi sul letto.

Nicole credeva alla mia teoria per cui i suoi dolori erano dovuti al fatto che prendesse tutto troppo sul serio, solo quando, facendola ridere, le passavano.

Nella messa in scena di quei piccoli teatrini, rimasi inaspettatamente io a ritrovare me stesso: permettevo che facessero capolino personalità nuove, variegate, più gradevoli e spiritose del marito che sapevo di essere e che si risvegliavano da un sonno antico.

Mi piaceva impersonare soprattutto le donne (la mia innata grazia e i lineamenti discreti sembravano trovare finalmente una ragion d’essere in quelle caricature), a cominciare da Claire, l’amica di mia moglie perennemente in lotta col suo corpo.

Nicole rideva delle mie «stupidaggini», come le chiamava lei, tanto che quell’anno decidemmo che il Capodanno sarebbe stato in maschera.

Non facevamo l’amore da mesi e l’ultima volta il suo sesso mi era sembrato un bellissimo scrigno: avevo avuto verso di lui l’atteggiamento di chi guarda un quadro, un’opera d’arte che tuttavia non ha voglia di toccare, come per il timore di profanare.

Sempre più spesso finivamo solo a parlare, stesi sul letto.

(Qualcuno che somigliava a mia figlia entrò nel bar. Mi affogai col cappuccino. No non era lei).

Il mio segreto si chiama Philippe e quella sera si diceva perfettamente a suo agio conciato da gatto.

Avevamo passato la serata a parlare, rapiti dalle numerose affinità e a commentare gli amici comuni, Claire sopra tutti: riappacificatasi forse col suo corpo, lo aveva ornato nella maniera più astrusa e, mezza ubriaca, dava spettacolo per la sala ballando e cantando.

Da quella sera erano passati tredici anni, come olio su un piano inclinato: velocemente, facilmente.

Nathalie si era stabilita a Parigi per l’università e io e Nicole avevamo chiesto il divorzio di comune accordo.
Dopo quella festa io e Philippe avevamo continuato a vederci di nascosto perché, circondandogli un giorno la testa bruna, rasata e puntinata d’argento, avevo sentito tutti i personaggi dei miei teatrini esplodere, come un vulcano zampillante, ed in me spandersi una gioia mai provata prima.
Nicole e Natalie mi sapevano solo ad abitare la grande casa nella campagna normanna, una di quelle che il sindaco dava a cinque euro, nella speranza di ripopolare l’area, deserta e provinciale.
Avevo provato a dire a mia figlia che non abitavo da solo quando l’avevo aiutata a svuotare i cartoni del trasloco della sua prima casa e un’altra volta al cinema, durante una pubblicità che sembrava non finire.
Ci sarei riuscito oggi?