Quelli dalle labbra bianche –
di Francesco “Cicitu” Masala
recensione di Pier Bruno Cosso
Quelli dalle labbra bianche di Francesco “Cicitu” Masala ti fa affondare nel dolore della brutalità della guerra. Attenzione: nel dolore, della brutalità. Qui non si racconta la brutalità, ma si descrive il dolore che ne scaturisce.
È un romanzo che fa male, ma allo stesso tempo ti porta in salvo. Ti salva perché mentre lo leggi è già tutto successo. Sospiro di sollievo. Vedi il male, percepito come solo tu lo puoi sentire intimamente, ma a una distanza siderale che ti protegge.
Siamo nella seconda guerra mondiale sul fronte russo. In presa diretta in mezzo a dei poveri soldati uccisi dalle pallottole, o dalla neve; cambia poco. Stai lì, senti tutte le sensazioni laceranti, ma ti accorgi di essere fortunato perché dove sei tu a leggere, non ci sono gli spari e il vento gelido che uccide.
Tu, nella tua poltrona calda col libro in mano, vedi davanti ai tuoi occhi dei miseri ragazzi malconci, non attrezzati per il gelo, catapultati in una lontana terra di ghiaccio che li vorrebbe sputare via.
Si arrabattano per sopravvivere, si dannano perfino per catturare i topi: l’ultimo cibo che gli è rimasto.
Però quello che è straordinario è che l’autore restituisce la massima dignità a questa sofferenza. Non si scava nel raccapriccio facile di una brutta guerra. Si racconta il dolore, appunto, in planata verso il basso, senza salvezza.
Lo sai già. Francesco “Cicitu” Masala te lo ha comunicato fin dall’inizio che loro non si salvano. È terribile saperlo e non capirlo, come quei poveri soldati che non possono comprendere perché sono stati mandati lì a morire.
Ci sono andati contro voglia, spinti dalla pressante propaganda di un regime dittatoriale. Ci sono andati spinti da una coercizione furiosa e incomprensibile. Ci sono andati anche col sorriso, come spinti da una specie di gioco da ragazzi. Di gioco dove in palio c’è la morte.
“- Fregatevene, serge’, tanto la patria non ci sente, è troppo lontana.
– La Patria è qui, sulle nostre baionette.
– Tutte balle, la Patria non è qui. Noi siamo delle pecore…
– Meglio vivere un giorno da leone che cento da pecora!
– Tutte balle. Meglio vivere cento anni da pidocchio. La Patria non è qui (…), anzi, meno di un pidocchio, questi almeno stanno qui, con noi.”
Tutto questo, e molto di più, in un romanzo che scorre sulle ali di un centinaio di velocissime pagine. Una scrittura lucida, immediata, che concede sempre qualcosa a uno sguardo incantato, a uno sguardo poetico senza compiacimenti.
Sto parlando di un libro che è una delle pietre miliari della letteratura sarda.
Quelli dalle labbra bianche è stato scritto dal grande scrittore e poeta Francesco “Cicitu“ Masala. La prima edizione era stata pubblicata da Feltrinelli nel 1962. L’ultima, che io ho in mano, è edita da Domus de Janas nel 2016.
È la storia del campanaro di un paesino della Sardegna che ci racconta della battaglia in Russia, sua, e di un plotoncino di suoi compaesani. Tutti rimasti uccisi. Lui, unico superstite, ci riferisce degli orrori della guerra. Dove i nemici erano le cannonate, ma anche la fame, i topi, la vita di trincea, i pidocchi, e soprattutto il grande gelo.
“Era arrivato l’inverno e la terra di Russia era tutta in mano della neve e del vento. Non era una neve come quella che cade, d’inverno, ad Arasolè (paese immaginario dell’entroterra sardo, ndr), che è morbida, quasi calda: quella era neve aguzza, adirata, violenta; era ghiaccio tagliato a pezzetti e gettato in faccia con forza. E il vento, il vento dell’est, che soffiava raspando, come un lupo, con la sua lingua di ghiaccio. Il cielo era sempre grigio, senza sole, basso come una miniera.”
Il racconto di guerra parte col racconto in tempo di pace. Di una domenica mattina di sole quando all’ora della messa si riunisce tutto il paese.
Il romanzo comincia proprio col don… don… delle campane a morto che dà voce al dolore del lutto. È il campanaro che fa piangere il campanile e le persone tirando quella sua maledetta corda.
È sua la voce narrante, in prima persona, che inizia dalla funzione religiosa per il ventesimo anniversario dei morti in guerra. Lui, unico rimasto vivo, suona la campana per tutti i suoi compagni d’armi che vent’anni prima hanno esaurito il sole e la vita nella campagna di Russia.
Da lì, con un salto indietro, l’autore racconta della guerra di trincea di tutti loro. Lì nel presente disperato. Lì, con lame di ghiaccio nell’anima, senza chiedersi se sia romanzo o cronaca dal fronte.
Che importa? È tutto vero, e comunque l’orrore si è celebrato.
L’autore insiste con la telecamera sul primo piano dei ragazzi. Riferisce di com’erano prima di partire per le armi, e come sarebbe potuta essere l’intera vita che avevano davanti… Che poi l’hanno persa, buttata via, senza aver chiesto di rischiarla. Senza aver avuto neppure l’occasione di diventare eroi.
“Ci calammo anche noi dentro la fossa. Sembravamo cinque pecore rognose cadute in un fosso. Eravamo entrati a campare la vita dove stava la morte. Questo è il succo della guerra. Per conto mio non c’è più altro da dire.”
Morire così, senza aver dato significato a niente. Morire senza una ragione e lasciare a lacerare per sempre i pensieri di quelli rimasti.
Obbiettivo puntato su quelli rimasti. La guerra vista dalle vedove, dalle mamme: punto di vista originale e toccante. Perché la visuale si sposta anche sulle donne forti e coraggiose che non sono andate in guerra, ma che la guerra l’hanno vista, vissuta e combattuta.
Donne vinte dalla potente furia ceca della guerra, ma che non si sono mai arrese. Donne resilienti, che hanno portato Arasolè oltre il guado, giusto per contraddire chi diceva che la guerra era cosa da uomini.
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Sinossi:
“Quelli dalle labbra bianche”, pubblicato per la prima volta nel 1962, è un capitolo essenziale della letteratura sarda.
Il romanzo di Francesco “Cicitu” Masala mette al centro di tutto il villaggio di Arasolè, con le sue storie e i suoi dolori, e ci accompagna nella tragedia della seconda guerra mondiale sul fronte russo.