“Nel guscio” – di Ian McEwan
Recensione di Lisa Molaro
Viviamo un epoca in cui tutto è già stato scritto; costruire storie non banali è meno facile di quanto sembri e quando, da lettori, incappiamo in brillanti chicche come questo libro di Ian McEwan, beh… il cuore gongola!
Perché gongola? Perché la penna narrativa di questo autore, distinguibile tra molte, dona il vero piacere di lettura!
Iniziamo col dire che, senza dubbio alcuno, questo romanzo è una rivisitazione di “Hamlet” di Shakespeare.
Un classico: tradimento, amore e desiderio di vendetta.
Una trama sfruttata da molti (una moglie fedifraga, un marito innamorato, l’amante in famiglia e un figlio, nella pancia, a complicare le cose) ma divelta davanti agli occhi del lettore attraverso un punto di vista coinvolgente e impattante: quello di colui che alberga dentro il guscio.
Una parete fragile lo avvolge e raggi di vita filtrano emozioni e suoni.
Si romperà il guscio dell’uovo e sarà creazione di un nuovo nucleo? Chi lo sa…
Ho adorato – ripeto: adorato – lo stile narrativo, poetico e grezzo al contempo, di McEwan.
Non una parola lasciata al caso, non un’espressione lanciata in aria, libera di cadere a piacimento, bensì parole boomerang che lo scrittore riacciuffava per collocare esattamente lì, dove dovevano stare.
La mamma, in gravidanza, è premurosa verso il feto per natura? Cosa le accade, in infauste occasioni, tra cuore e pancia?
Il calice si alza e il livello di vino, nella bottiglia, si abbassa.
Scivola giù per la gola, quel liquido capace di annebbiare i pensieri focalizzando fari di luce in abissi profondi.
Sfida il giudizio, McEwan, del lettore attento e scrupoloso.
Dentro al guscio “l’atmosfera” ora appare nera e ingannevole, come la notte senza luna, ora invece luminosa e rassicurante.
“Sotto il tiepido picchiettio delle gocce d’acqua corrente e il suono ronzante della voce di mia madre che canticchia, vivo un momento inspiegabile di gioia euforica. È più forte di me, non riesco a trattenere l’entusiasmo. Un prestito di ormoni? Poco importa.Il mondo mi appare dorato, sebbene dorato per me sia soltanto un nome. So che siamo nella gamma cromatica del giallo, quest’ultimo pure nient’altro che un nome. Ma «dorato» suona bene, lo sento, lo assaporo mentre l’acqua calda scroscia in corrispondenza del retro del mio cranio.”
Gli occhi che scorrono velocemente le parole, inciampano in sentimenti contrastanti.
Ma davvero tutto porterà a tanto?
Il lieto fine arriverà oppure no?
La faccia, bellissima, veramente diverrà assassina? Chi ne sarà complice volente? Chi dolente?
I versi del poeta stanco porteranno a qualche cosa di redento?
La pianta del piede si lascia trafiggere da una scheggia di vetro.
Una mano accarezza la pancia.
È tutto a posto, forse.
O forse nulla lo è!
“E penso alla nostra cella in prigione – spero non troppo piccola – e ai passi stanchi che salgono le scale dietro la sua pesante porta chiusa: prima il dolore, poi la giustizia e infine il senso. Tutto il resto è caos.”
Qualcuno ha definito questo libro di Ian McEwans “thriller amletico“. Tale è, a mio parere.
Ian McEwan istiga nel lettore riflessioni sul vivere moderno, sulla solitudine che alberga in certi animi senza speranza.
Vivere? Morire? Lasciar vivere? Uccidere?
Parole, come versi di melanconica poesia, si spargono a terra in modo confusionale… restano delle macchie pregne di coscienza.
Sinossi:
La gravidanza di Trudy è quasi a termine, ma l’evento si prospetta tutt’altro che lieto per il suo piccolo ospite. Ad attenderlo nella grande casa di famiglia (e nel letto coniugale) non c’è il legittimo marito di Trudy e suo futuro padre, John Cairncross, poeta povero e sconosciuto, innamorato della moglie e della civiltà delle parole, ma il fratello di lui, il ricco e becero agente immobiliare Claude. Dalla sua posizione ribaltata e cieca, il nascituro gode nondimeno di una prospettiva privilegiata sugli eventi in corso, ed è lui a metterci a parte di una vicenda di lutto e di sospetto dagli echi assai familiari. Certo, la scena non è quella corrotta e claustrofobica del castello di Elsinore. Certo, i due cognati fedifraghi, Trudy e lo zio Claude, non hanno regni nordici cui aspirare. Piuttosto a far gola ai due vogliosi amanti è l’edificio georgiano su Hamilton Terrace, decrepito ma d’inestimabile valore, incautamente ereditato da John, i cui pavimenti luridi e la cui onnipresente immondizia prendono il posto del marcio in Danimarca. Ma amletico è il crimine orrendo che il narratore vede (o meglio sente) arrivare, e amletico è pure il suo inesauribile flusso di pensieri dubitanti, gli stessi che hanno inaugurato al mondo la danza della modernità. Se nel testo shakespeariano l’origliamento, l’atto di spiare e raccogliere informazioni rovistando i recessi e gli anditi del regno, è spesso motore dell’azione, nel guscio l’udito è il senso privilegiato per ragioni fisiologiche, e a essere rovistati a pochissima distanza dal capo dell’inorridito narratore sono spesso e volentieri i recessi e gli anditi del corpo materno. Mentre all’orecchio non sempre affidabile del nostro eroe non-nato si dipana la tragica detective story, nella manciata di giorni che separano il suo «esserci» dal suo protetto «non-esserci» ancora, con il conforto di qualche buon vino giunto fino a lui dalle superbe degustazioni materne, e costantemente edotto sul mondo dai programmi radiofonici di approfondimento culturale che fortunatamente Trudy preferisce a quelli musicali, il nascituro ha tempo di riflettere su di sé, sulla complicata faccenda dell’amore, sul mondo, coi suoi orrori contemporanei e con le sue desiderate meraviglie. Ha tempo e curiosità sufficienti per farsi domande, interpretare i segni della sua realtà mediata, contemplare azioni e concludere che la sua sola salvezza, la salvezza dell’uomo, sta forse nell’esitazione.