“Figli di Terracotta” di Katia Debora Melis
Recensione di Ilaria Biondi
Figli di Terracotta.
Una silloge elegante, colta e raffinata, che assorbe nei propri versi anche la potenza maestosa della lingua latina.
Non si tratta però di preziosismo o compiacimento letterario, bensì del segno tangibile di una precisa appartenenza culturale.
La voce poetica di Katia Debora Melis si radica infatti con autenticità cristallina nella culla luminosa del Mediterraneo.
Ad essa si aggrappano la sua biografia.
La sua formazione culturale.
La sua anima poetica.
Una poesia viva, concreta, mobile, che non si appende ad astrazioni e concettualismi, ma che sceglie di ancorarsi alla materia brulicante, anche quando questa appare disseccata e rattrappita.
Poesia bramosa di terra, fuoco, aria, acqua.
Poesia che nell’Elemento penetra.
E dell’Elemento si nutre.
Parola che indaga, senza requie.
Che interroga e si interroga, mai paga.
Che scava negli anfratti d’ombra del mondo.
Che snuda paziente e impietosa la svuotante indifferenza e l’ipocrisia mesta della stagione contemporanea.
Misera notte dell’anima, che raffredda le scintille di vita e raccorcia il passo del volo.
Nuova stagione,
la contemporanea,
che non dà appiglio a classificazioni
ma con rituali apparentemente fissi
e formulari
presi in prestito da noi
si finge e sfugge,
a volte sorridendo falsa […].
(Suggestioni)
Poesia che si addentra nelle zone scure del reale, e al contempo si sprofonda nell’io e nelle sue nebulose, senza infingimenti.
Un io sempre all’erta, guardingo e inquieto, le cui corde interiori riflettono e accolgono la disgrazia sepolta e silente del mondo.
Spina amara attraversa la schiena dei suoi pensieri.
Il precipizio amaro della malinconia.
L’inganno bruciato delle illusioni.
Il mucchio informe e sgangherato delle speranze inseguite.
Corteggiate.
Eppur subito scivolate via.
La clessidra di pietra del tempo arraffa sogni e strangola la ragione.
Dissolve il futuro.
Ingoia l’oggi.
Cerca, feroce, di impossessarsi della mano generosa e luminosa dell’ieri.
Anche l’amore, talvolta, lascia solo orfane orme di sasso dietro di sé, facendosi abito secco di assenza, come in Cade dal cuore, nei cui versi dolentemente armoniosi rintraccio un’eco dell’indimenticato Bertolucci:
[…] Resta la risposta dell’assenza
che brilla forte
accesa
più bella di ogni presenza.
Figli di Terracotta.
Stagione senza estate.
Voce che canta la desolazione arida e la tacita solitudine di un autunno spento.
Di una primavera strozzata avara di fioriture.
Di un inverno che raggela feroce la memoria e precipita i pensieri nelle urla nere dell’ottundimento.
Figli di Terracotta.
Paesaggio caliginoso.
A orlare di ombre un greto scarno e dilavato.
Durezza di pietra secca.
Ove assente è, ormai, il respiro turgido e fecondo dell’Acqua.
L’acqua che si perde
per sempre
è amarezza fugace
instabile, tetra,
attesa di stagione in stagione
mentre
langue
e si dissecca
il corpo
la vita.
(Acqua persa)
La lama abbagliante del sole strema e prostra la terra scabra.
Lo splendore vivificante dell’astro solare si tramuta negativamente in simbolo dolente, richiamando la forza vibrante montaliana, l’inaridimento smarrito e amaro di Meriggiare:
Orme rimaste
di tutti quei pensieri
sul greto secco
di un fiume
addormentato
dal sole
dal tempo.
(Solo ciottoli e sassi)
Il verso breve e scarnificato spezza con scatto nervoso il fluire armonioso dei versi più lunghi.
Il ritmo disteso si frange.
Si arresta.
E improvviso emerge lo sgorgo secco, il singhiozzo di voce dell’anima ferita.
Il bianco della pagina accoglie nel suo grembo l’inatteso.
La visione.
Il segno.
La rivelazione, che solo l’occhio del poeta scorge e cattura.
Tempo buio.
Spazio scuro.
Trama densa e impermeabile.
Scalfita, tuttavia, da impercettibili squarci.
Da piccoli, preziosissimi lampi.
Da una bianchezza luminosa.
Incerta, forse.
Esitante.
Traballante.
Eppur presente.
Potente, coraggiosa, ardita.
Nel suo tentativo di farsi «nuova alba».
Nel soffitto di un cielo che annotta pulsano, a volte, le stelle.
La Parola poetica snuda la nostra trista caducità.
La nostra fragile, umana finitezza.
La Parola poetica è scandalo spudorato.
Svelamento impreveduto.
Indecenza di verità, che non può tacere.
Necessità scalza del dire.
La poesia deve essere
spudorata di sincerità.
In questo senso è spudoratezza:
non guarda in faccia a nessuno
perché dice
ciò che vuole
e lo dice
come vuole.
Oggi che tutto si può fare
che niente più stupisce
scandalosa è la poesia.
(Spudorata)
La Parola poetica è, al contempo, voce salvifica e consolante, che sottrae il nostro esistere misero alla sua precarietà.
Alla sua inquieta debolezza.
È sguardo gettato oltre, che coglie in ogni piccola “morte” una nuova scaturigine.
Una rinascita.
Un ciclo di partenze e ritorni.
Nuova creazione.
Nuovo ordine.
È occhio che scorge nelle scorie della tenebra l’ardere acceso di un nuovo fuoco.
La Vita, ostinata, risorge dalle proprie ceneri.
Il capezzolo sterile del mondo lorda l’anima con la sua linfa rinsecchita:
Come la pianta radica e cresce,
dall’aria che respira
assorbe,
e così anche il cuore,
linfa nera.
(Linfa nera)
Ad esso si contrappone il guizzo vitale dell’albero, che si lascia penetrare dalla calda linfa della luce e si apre generoso all’abbraccio fecondo del sole (già il titolo della poesia lascia emergere una seppur gracile, composta e misurata speranza):
Piccolo albero
che ogni giorno
assorbe in silenzio
vita dall’aria,
si riempie di sole,
lo cerca, l’abbraccia.
(La vita illuminata)
L’io poetico, con pari slancio, con ardore simbiotico, vorrebbe farsi pianta.
Strapparsi alla vuotezza nella quale è, suo malgrado, inabissato.
Appigliarsi alla nuda certezza della terra.
Per non sperdersi.
Per non scomporsi.
Per non dissolversi.
Per non volare via, nella labilità vaporosa del vento.
Irradicarsi nel grembo del ricordo, che si fa scoglio, culla e segreto di memoria che non teme lo sgretolio dei giorni.
Irradicarsi nel ventre della terra.
Suggere dalle sue mammelle il latte di miele della consolazione.
Della materna protezione.
Della solidità invisibile di un cordone tenace che non si spezza.
Figli di terracotta.
Splendenza di appartenenza.
Terra Madre.
Sento un bisogno matto
di radicare
in questo tempo
con tutto lo stupore
che ho addosso.
Radicare
per fare fronde e fiori
dai colori che ho vissuto
e che ho scritto
in ogni giorno
che soffiata dal vento
sono volata via.
(Radicare)
Figlia di terracotta, che sgorga nel sangue, nella carne e nell’anima dalle viscere rigonfie di una Terra che brucia nei battiti delle vene, che offre i suoi fianchi larghi e il suo seno florido al fertile, rovente, penetrante abbraccio del sole.
Terra Madre.
È sotto il segno della Genesi che si innalza il canto dei Figli di terracotta:
Quando il Sole
ha ingravidato la Terra
è diventato padre di tutti i padri
e la Terra, forte,
si è lasciata plasmare.
Nacquero figli di terracotta.
Siamo noi.
(Genesi)
Terracotta.
Terra e fuoco.
Divino congiungimento.
Argilla impastata, modellata e cotta.
Mani che toccano – con vigore sensuale –, la terra, plasmandola.
Argilla lasciata asciugare al sole, carezzata dalla lava dei raggi accesi.
Fragile vulnerabilità.
Argilla che sostanzia in vita.
Caducità.
E perenne rinascere.
Nel sacro, umido e fertile grembo della terra.
La Genesi di Katia Debora Melis racchiude evidenti echi di quella biblica, ma sceglie di declinarsi in chiave femminile e materna.
Sorretta, guidata, protetta dal soffio potente, uterino, carnale e sanguigno della mitologia pagana e del culto delle Dee Madri della Sardegna.
Poesia vibrante e corporea nella quale ravviso, con stupore emozionato, una sorellanza di Parola e Carne con l’incipit ardente, che stilla profumi e arcana bellezza del romanzo le Dee del Miele della nostra Emma Fenu, scrittrice di radioso talento e figlia anch’ella, come Katia Debora Melis, della prospera e magica terra sarda.
Due voci che si inseguono.
Si corteggiano senza conoscersi.
Si intrecciano.
Si ritrovano.
Sulle ali segrete di un volo che trascende ore ed epoche, solcando contrade lontane che svaporano nelle nebbie ancestrali e complici del Mito.
Profumo di pomodori e salsedine, linguaggio di una terra talvolta generosa, dea dal grembo fecondo e gravido di sole, che sfama i suoi figli.[1]
Terracotta.
Coppa che avvolge, racchiude e custodisce cibo di vita, che mano di Donna coglie, raccoglie, prepara, impasta, plasma con saggezza antica, dal misterioso e dolce sapore del miele.
Oro di vita.
Grembo di Dea.
Appena liberati i favi, in tempi lenti scanditi dal ritmo eterno della natura, quelli contenenti la covata sarebbero stati resi alle api; gli altri, invece, sarebbero stati spostati dentro ampi contenitori in terracotta, gli stessi che si prestavano a molteplici usi, fra cui l’impastatura del pane e dei dolci. [2]
Emma Fenu e Katia Debora Melis.
Due Figlie di Terracotta.
Due Dee del Miele.
[1] Citazione tratta da Emma Fenu, Le Dee del Miele, Milena edizioni, 2016, pag. 15.
[2] Ibid., pag. 19.
Sinossi:
Due importanti lemmi linguistici coniugati a costituire una sembianza al contempo astratta e concreta costituiscono il titolo integrale della nuova silloge poetica di Katia Debora Melis, Figli di terracotta.
Da una parte i “figli” richiamano quella corporeità di immagini legata al senso concreto dell’esistenza e di un vissuto che si tramanda nel corso delle generazioni mediante l’atto riproduttivo (una sorta di palingenesi continua dell’umanità).
Dall’altra, la “terracotta” quale materiale che esiste non in quanto naturale (come può esserlo la roccia lavica o lo zolfo) ma quale prodotto di lavorazione dell’uomo ci introduce immancabilmente a un universo plastico caratterizzato per la fragilità della materia, per la connaturata finezza dello stesso soggetta a un deterioro e che necessita, dunque, di una maneggiabilità attenta, se non addirittura severa e rigorosa.
Autore: Katia Debora Melis
Titolo: Figli di Terracotta
Genere: Silloge poetica
Editore: Thoth
Anno edizione: 2016
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