PANCHINA

Risonanze da dove

di GIULIA LA FACE

Mia nonna soleva alzarsi molto presto al mattino.

Fingevo di dormire nel mio lettuccio poco più lungo di me, per sentire il profumo di talco che si cospargeva abbondante sul seno e l’Acqua di Rose, che prelevava con un batuffolo da una elegante bottiglietta blu.

Indossava delle sottane ampie a coprire la sua pancia rotonda e morbida,  dove nel primo pomeriggio mi arrampicavo per farmi raccontare una favola.

Racconti che si spegnevano leggeri in un borbottio di sonno, in cui precipitava biascicando ultime sillabe confuse. Lasciando le fiabe a metà.

E me, seduta su di lei. A spiare i movimenti delle palpebre socchiuse e le sue rughe che accarezzavo spesso, nella convinzione che con le mie mani avrei potuto farle scomparire. 

Hai le mani d’oro” , mi diceva spesso.

Si ricredeva sempre non appena rubavo, dalla pasta sfoglia appena stesa, piccoli pizzichi di impasto e richiudevo i lembi da cui avevo fatto uscire il pezzettino di pasta cruda.

Rimanevo immobile a bocca chiusa mentre lei osservava la sfoglia che si era raggrinzita in un punto. Allora mi prendeva le mani e mi dava dei piccoli colpi,  quasi carezze,  e le mie mani erano per lei quelle di un diavoletto dispettoso.

Passavamo molte ore della giornata insieme quando ero bambina, prima che rientrasse mia zia alla sera,  a portare altri suoni. E  la  sua dolcezza di donna chiamata ad essere madre di una figlia non sua .

Si stava, fino ad allora, spesso, in silenzio.

Lei si muoveva con  passi leggeri,  nonostante la sua corporatura robusta e l’altezza superiore alla media, che le erano valse l’appellativo di “bersagliera”.

E io mi muovevo allo stesso modo,  per non turbare quella pace irreale di cui ci circondavamo.

Mi piaceva stupirla a volte con piccoli spettacoli .

Fu un successo mirabolante quello che mi vide protagonista nella cucina di legno chiaro e mattonelle in tinta, mentre lei cucinava il mio pranzo. Trascorsi una mattina intera sulla mia seggiolina a dondolo . Ascoltai fino ad impararlo a memoria,  su un  giradischi arancione,  attraversato da un manico nero, per trascinarlo con me ovunque, un recital di Renato Rascel.

Quella voce così amichevole, familiare, raccontava con la cadenza di una filastrocca, di un acquedotto che si era rotto.

Ascoltai quelle parole cantilenanti e sornione per ore.

Mi presentai sulla soglia della cucina. Mia nonna asciugava, con le sue mani lunghe e grandi, alcune stoviglie che mi apparivano lucide come specchi.

Mi uscivano dalla gola le parole come miele. Lo stupore sul suo viso nutriva ogni parte di me, così da portare a termine quella che, di attimo in attimo, mi appariva una impresa sempre più lodevole.

Mi baciò la fronte,  ero riuscita a stupirla,  portando suono e colore nel suo silenzio magico .

Così furono gli anni miei con lei: corridoi ombrosi, mani grandi a piegare  biancheria e stendere carezze profumate di rose e di crema morbida.

Anni di silenzi e confidenze, di improvvisazioni sul tema della vita, che ci faceva avvicinare e allontanare…

In un minuetto di sguardi, gesti, parole, dette sussurrando come si sussurrano i segreti.

Come fanno le donne unite da una radice profonda e oscura. 

Ho accarezzato un giorno le sue mani, ossute, rugose eppure ancora morbide. All’improvviso sentii di  volerle portar via. Un  desiderio profondo e istintivo  di aspirare quel tocco, perché rimanesse con me per sempre.

Fu l’ultima volta che la vidi posare i suoi occhi dorati, nella luce appassita di un’ ultima luna, sul mio sguardo di donna.

Mi apparve in sogno.In una notte stregata da un Melthèmi furioso, che tempestava la terra e il mare, con una maschera sul volto, simile a un Totem.

Io coglievo una rosa sul mio balcone per portargliela in dono.

L’ultima rosa di un vaso.  Al risveglio seppi con certezza che era venuta per un ultimo saluto. E non sbagliai.

Hai le mani d’oro!

Finisco il trattamento Reiki su un paziente dai capelli bianchi ma dal  volto giovanile e sento queste parole risuonare…

Mi metto una crema per ammorbidire la pelle delle dita e dei palmi.  La sento. C’è lei.

Sento che mi ha lasciato un dono, rimanendo così con me, in una scia di rose.