Intervista a Caterina Ferraresi autrice, di RITRATTO DI BAMBINA CON
PESCI
a cura di Cristina Casillo
Caterina Ferraresi è una scrittrice che ha attirato la mia curiosità in modo bizzarro.
Ero al bar intenta a sorseggiare un caffè mentre davo una sbirciata algiornale.
Alla pagina dedicata agli spettacoli, si parlava di un suo libro: L’elogio del barista.
Ho apprezzatolo stile scorrevole, brillante, ironico e mai scontato; è un’autrice capace di trattare tematiche complesse, senza essere noiosa.
Caterina è psichiatra e psicoterapeuta per famiglie. Se con L’elogio del barista ironizzava sull’utilità della psicanalisi, nel nuovo romanzo, Ritratto di bambina con pesci, invita a una riflessione profonda sulle complesse relazioni che spesso si vivono all’interno del nucleo familiare.I silenzi legati a l’incapacità di comunicare e condividere emozioni non sempre piacevoli,porta a rifugiarsi in percorsi alternativi molto simili alla fuga.
Ritratto di bambina con pesci è edito per Scatole Parlanti nel 2020.
Sin dalle prime pagine sono stata affascinata dalla voce narrante capace di creare empatia immediata con la protagonista.Betty, una bambina di cinque anni, entra in contatto con la parte più profonda e remota del lettore, evocandone l’infanzia.
La copertina mi ha ricordato il caleidoscopio: un oggetto per osservare tante immagini all’apparenzasimili ma che nascondono varie sfaccettature, un po’ come i personaggi descritti dall’autrice.
Un romanzo corale nel quale la figura femminile domina: Betty con la bambola Patrizia, la mamma, la nonna, la dada, una domestica e la sorellina nata prematura.
Consiglio la lettura per lo stile inconfondibile dell’autrice. L’ironia è un dono prezioso soprattutto se usato con delicatezza, sensibilità ed eleganza. Un romanzo nel quale è facile identificarsi per la varietà dei personaggi.
Una dada con le scarpe sbucciate e di scarsa qualità ma che si concede il rossetto con packaging di lusso.
Una bambina che non si separa mai dalla bambola, il suo alter ego.
Una mamma giovane che si ritrova a vivere una situazione più grande di lei mentre auspicava un mondo ovattato fatto di luccichii e bracciali che tintinnano.
Oggi, Caterina Ferraresi è ospite di Cultura al Femminile e ha accettato di rispondere ad alcune mie domande.
Benvenuta Caterina.
Come è nata l’idea di questo romanzo: cosa ti ha ispirata?
Tutti i bambini amano la loro mamma, non tutte le mamme amano i loro bambini. Perché sono infelici, o troppo giovani, o troppo stanche o perché, semplicemente, a volte, l’amore non succede.
Questa per me è stata la verità più difficile da accettare, dietro una scrivania, tra le pareti opprimenti di un ambulatorio di psichiatria.
Ci ho messo anni a fare la pace con questa cosa. Anni e anni. Ci sono riuscita? Forse un po’.
Questa storia racconta proprio di questo, di Betty, cinque anni e un cespuglio di capelli in testa, della sua lotta per essere amata o, almeno, vista. E della capacità di prendere in mano la sua vita, mentre tutto intorno va in rovina, e tutti si sono dimenticati di lei.
L’assenza è la vera protagonista del romanzo: l’assenza di calore, di gesti affettuosi che non siano calcolati al millimetro, l’assenza delle parole per consolare.
Ritratto di bambina con pesci offre molti spunti di riflessione in particolare uno che ci riporta indietro nel tempo e che hai ben illustrato durante la presentazione alla quale ho avuto il piacere di partecipare. Quando eravamo bambini, e poi adolescenti e infine adultI, ci siamo sentiti amati poco, abbastanza oppure molto?In base alla tua esperienza lavorativa, come si sentono amati i ragazzi del 2000?
I ragazzi del 2000, anche se non amo le generalizzazioni, assomigliano un po’ alla generazione che adesso ha ottant’anni: sembrano poco competenti al linguaggio che denomina le emozioni.
Come i “vecchi” (parola che sembra maleducata e che invece a me suona tanto nobile) traducono le loro emozioni attraverso sintomi: mi fa male la pancia, ho un frullo qui, ho un peso alla testa, così i giovanissimi spesso traducono le loro emozioni in azioni, le agiscono. La rabbia, la noia, l’assenza di prospettive.
Penso che sia compito dei grandi insegnare a dare un nome ai sentimenti. E insegnare a leggere, vedere buoni film, ascoltare buona musica.
Frequento corsi di scrittura e mi è stato detto più volte di non scrivere mai la parola “emozione” ma di descriverla. Quanto è importante nella vita, attribuire un nome alle emozioni?
Ho risposto prima di leggere questa tua domanda perché io sono un’impaziente! Ho un ricordo del mio primo giorno di scuola, mi ero fatta accompagnare in bagno, sentivo uno strano malessere nella pancia e pensavo che se avessi saputo come si chiamava quel male lì sarei stata meglio.
Era nostalgia di casa, adesso lo so. Dare un nome alle emozioni le rende meno spaventose, le addomestica, in un certo senso, le rende raccontabile e quindi condivisibili. Siamo umani, viviamo le stesse cose, possiamo parlarne, possiamo consolarci a vicenda quando la vita si fa dura.
Spero di averti risposto: dare le parole alle emozioni ci salva la vita.
Molti si sono improvvisati scrittori in questo periodo nuovo e complicato, nel quale il Covid fa da padrone. Alcuni hanno approfittato del tempo libero per sfornare nuovi romanzi ispirati alla pandemia. Come stai vivendo questo momento? Pensi di dedicare un racconto o un libro magari ironico su come stiamo affrontando le restrizioni, i dubbi e le ipocondrie?
Ti dirò la verità, io ho poca pazienza e stare ferma, chiusa, mi rende nervosa. Questo fenomeno che ci coinvolge tutti è stato raccontato da scrittori come Camus ne La peste (che pare sia stato vendutissimo in questi mesi!).
Per scrivere del covid e delle sue conseguenze psicologiche penso che si debba lasciare passare del tempo, che tutto debba decantare un po’. Io adesso sto scrivendo un’altra storia tratta da un fatto di cronaca di omicidio/ suicidio di una coppia di fidanzati, avvenuto circa sessant’anni fa.
Un lavoro difficile, scivolosissimo, che necessita di uno sguardo molto rispettoso, anche perché lo sto scrivendo a partire da lettere e diari dei protagonisti. A volte mi tremano i polsi, a volte mi viene un’angoscia che mi costringe a lasciare stare.
Vedremo
Ringrazio Caterina per questa piacevole chiacchierata. Concludo l’intervista con una citazione che mi ha colpita. La figura maschile nel suo romanzo sembra quasi assente ma si rivelerà quella più positiva.
“Il gelataio dietro il suo bancone lucido preparò il cono per la bambina. Troneggiava sulle vaschette rosa, gialle, marroni, sorridendo benevolo con la sua faccia da putto invecchiato.
Aveva a casa una bambina della stessa età di Betty, in quel momento a letto con il mal di gola. Era una bambolina bionda, con le guance rosa come pesche.
Il suo cuore di padre batté un colpo, un piccolo flap di puro amore. Era così grato di quella meraviglia. Allora, strizzando l’occhio a Betty, prese un cono minuscolissimo, ci mise un cucchiaio di gelato e lo porse a Patrizia.“Questo è per lei, signorina” disse alla bambola mimando un piccolo inchino cavalleresco, “con i miei omaggi”.
Il cuore di Betty andò alle stelle. Flap fece, perché questo, lo sanno tutti, è il vero suono dell’amore”.
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Sinossi
Ritratto di bambina con pesci è la storia di Betty, cinque anni, bruttina, che vive in una famiglia benestante – in una casa in cui sarebbe preferibile essere belli -, e della sua fedele e scalcinata bambola, Patrizia, che l’accompagna per tutto l’arco dei cinque giorni in cui si snoda questa storia. Attorno a lei gira un mondo posticcio nel quale nessuno è veramente dove vorrebbe essere: la dada con velleità artistiche; la domestica Ana Luz, presenza silenziosa e oscura; una nonna che sembra condannata a una giovinezza perenne; Cenacchi, il giardiniere ingaggiato a resuscitare ortensie e un padre, chirurgo di fama, che lavora lontano.
Poi c’è la mamma, bella, fragile, incredula di essere caduta in una storia così grande, che entra, esce, dà disposizioni e va nell’altro spazio di questo intreccio, il grande ospedale dove si consuma il dramma del quale non si parla mai: la sorellina di Betty, nata prematura.