contest AMARCORD – di MARINA FICHERA
Le diciotto e trenta, l’ora dell’happy hour milanese, l’ora delle frivolezze. Fa caldo e sono di fronte al portone del carcere di San Vittore. Siamo in tanti, tutti colleghi, e no, non siamo stati arrestati in massa, stiamo per partecipare a una visita della casa circondariale che culminerà con un aperitivo gestito dalle ospiti dell’ala femminile.
Lasciati documenti, borse, cellulari, grimaldelli e quant’altro – giustamente la sicurezza è una priorità – entriamo nel corpo centrale di quello che oggi è una casa circondariale, cioè un luogo in cui sono recluse le persone in attesa di giudizio. Abbiamo lasciato fuori qualsiasi cosa che possa permetterci di documentare la nostra visita, tutto tranne i nostri occhi, orecchie e cuori.
Visitiamo la struttura accompagnati da alcuni operatori sociali e da due splendide carcerate. Entrambe sulla cinquantina, una bionda, ancora bella anche se ormai sfiorita, di origini polacche, l’altra morbida matrona dominicana. Parlano con tono pacato, rassicurante, i sorrisi sono molti e l’entusiasmo per la visita è sincero.
Il carcere è un luogo strano, gli spazi sono molto grandi ma poi giri lo sguardo e incontri un cancello, in un luogo dove non dovrebbe essere. Guardi in giro e ti accorgi che è tutto asettico, impersonale. Visitiamo rapidamente i raggi maschili, il nostro obiettivo è l’ala femminile. Qui, contrariamente alle sezioni maschili, sono ospitate esclusivamente donne che hanno già avuto una condanna definitiva. Le poche celle sono tutte vicine, si affacciano su un breve corridoio e sono aperte, solo dei tendaggi colorati coprono la vista degli interni. Ci spiegano come la convivenza di tante personalità, lingue, culture non sia affatto facile, contrariamente a quanto può apparire al nostro sguardo veloce e superficiale.
Vecchie macchine da cucire, tessuti colorati, bozzetti di abiti, sete, fili e una gabbietta con degli uccellini. La sartoria è uno dei pochi luoghi dove queste donne, una quarantina di oltre venti nazionalità diverse, possono vivere una parvenza di normalità, di libertà mentale. Qui a “San Vitùr” hanno la possibilità di imparare a cucire o a cucinare professionalmente.
Il cortile in cui hanno allestito l’aperitivo è pieno di pace. Un’oasi di verde e suggestioni quasi mistiche, un piccolo angolo di paradiso in mezzo a un inferno di massa. Ragazze sorridenti, carcerate anch’esse, ci servono con fiera timidezza del cibo di qualità eccelsa. La signora polacca ci legge, a tratti con gli occhi lucidi, dei brani che ha scritto sul giornalino che hanno creato alcune donne per raccontare nostalgie, sogni e speranze. Alcune, molto poche in verità, ci spiegano che devono scontare condanne molto lunghe, e capisci che quasi sempre c’è di mezzo un uomo.
Poi ci raggiunge la Direttrice, una signora forte e dolcissima, che ci racconta di quanto sia ingiusto avere tra gli “ospiti” uomini, in attesa di giudizio, arrestati solo per aver rubato un salame, per fame. Ci dice che tutto sommato almeno in carcere hanno da mangiare.
Che strana sensazione, sono in magnifico luogo a godermi un milanesissimo aperitivo circondata da storie di umane miserie, errori, povertà, ma anche di speranze e voglia di riscatto. Un mondo che non ha nulla a che vedere con quello che certi telefilm americani, patinati quanto pruriginosi, ci propinano.
Un luogo di donne e uomini che hanno sbagliato e che stanno pagando il loro conto alla società. Perché nella vita chi sbaglia e paga ha diritto a ricominciare da capo, è una delle grandi conquiste della civiltà occidentale, oltre all’happy hour.
Ti leggo sempre con grande piacere. Un viaggio molto vicino, forse più lontano del solito.
I viaggi dietro i muri vicino casa sono quelli che spesso di rivelano i più densi di emozioni! Grazie Cristina